Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

sabato 14 dicembre 2013

Non posso promettere nienthè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Il post di oggi lo dedico a tutti quelli che vorrebbero cancellare quest'anno che sta per finire, a quelli che quando Facebook lampeggia l'imperativo «Guarda il tuo 2013 in breve!» vorrebbero prendere a badilate il computer, immergere lo smartphone in un silos di salamoia o dare fuoco ai pedalini multicolor fatti a mano dalla nonna perché, per quello, ogni motivo è buono.
(«Mi era avanzata un po' di lana e ho detto: 'Peppì, che dici, non gli serviranno due paia di calzini alle bambine?'». No, nonna, a me e a Oris non servivano quattro piedi destri, pure l'anno scorso ci hai fatto quattro piedi destri, al più ci servivano i sinistri, ma poi comunque no, non li usiamo sti cazzo di pedalini multicolor: è una questione di dignità estetica)

Guardiamoci in faccia e diciamoci la verità: questo è stato l'anno più lungo della storia, è stato difficile a tutti i livelli, estenuante negli ambiti più disparati delle nostre vite.
Non mi hanno rinnovato il contratto. Abbiamo un governo di larghe intese. Ci siamo lasciati, mi devo trovare un'altra casa. Sono ingrassata, non mi entra più niente. Vado via dall'Italia, mi trasferisco in (aggiungere un luogo a caso, io ho un amico che ci si è trasferito). Non riesco più a montare le uova. Lo stress mi ha fatto perdere tutti i capelli. Ho delle orecchie enormi che nemmeno Berlusconi. Strano che non fanno un reality sui disoccupati, non ci vuole nemmeno troppa fantasia, lo devono solo chiamare MASTER.
Oltretutto non abbiamo nemmeno i Maya, quest'anno, l'apocalisse, il 21/12/2012, che uno, pure se non ci credeva, gli dava comunque una possibilità alla fine del mondo così come l'abbiamo conosciuto.
Ho visto gente alla ricerca disperata di altre date palindrome, di combinazioni progressive, di «Sono sicura, Iris, questo mese ha avuto sei lunedì, mo qualcosa dovrà pur succedere», perché questo mondo, così come l'abbiamo conosciuto, fa rate, come dice sempre la mia amica Pallax. 
(Che rate, in romano, vuol dire che schifo, che presa a male, è un senso di disgusto che ha una profonda matrice economica, equitalica quasi, quindi non esiste termine migliore per dire quello che volevo dire)

«Urge che io faccia delle precisazioni», mi dice lui mentre scrivo, tirandosi su gli occhiali, e io non ho bisogno nemmeno di concentrarmi per riconoscerlo perché lui è il mio compagno di banco del liceo, quello che ha sempre precisato tutto, ha sempre avuto informazioni più dettagliate delle mie e quando ho detto che avrei fatto Ingegneria Meccanica all'università mi ha chiesto di dare la definizione di cavallo applicata ai motori e non la sapevo e allora mi sono messa a disegnare macchine per dimostrargli che la mia scelta aveva un senso e lui tirandosi su gli occhiali mi ha detto: «Scrivi 313 sulla targa perché questa al massimo è l'automobile di Topolino, visto che ignora qualsiasi criterio di aerodinamica, ergonomia e vari precetti base dell'automotive design»

«Le mie precisazioni sono le seguenti: il 2013 non è stato un anno più lungo degli altri (ti faccio notare che non era nemmeno bisestile); la data 21/12/2012 non è una data palindroma; nessuno può avere orecchie delle dimensioni di quelle di Berlusconi; i calzini di tua nonna sono troppo morbidi per essere veramente di destra e soprattutto la salamoia non è una soluzione acida in cui dissolvere le cose»
«Ah ah! Beccato! Questo non è vero! Non te lo ricordi Chi ha incastrato Roger Rabbit
«Al massimo nella salamoia ci puoi cancellare le macchine che disegnavi quando facevi finta di voler fare l'ingegnere. Hai mai visto un'oliva o un carciofino dileguarsi in un barattolo di salamoia?»
«Hai sempre ragione tu: che rate!»

Non mi voglio solo lamentare perché lo so che potrebbe andare peggio: per esempio, potrei davvero disegnare io le auto su cui viaggiamo oppure i miei genitori potrebbero avere Facebook, commentarmi le foto, obbligarmi a guardare il loro 2013 in breve; potrebbero interrompere la produzione di Estathè o vietarne la fruizione (il proibizionismo è sempre dietro l'angolo) oppure potrei cedere a indossare i calzettoni di lana fatti da mia nonna. Potrebbero succedere cose peggiori, è vero: ma questo non cambia il fatto che il 2013 è stato un anno di merda, per tutti quelli che conosco.

Però, siccome il pessimismo cosmico dentro di me ha attecchito un po' male, non riesco a non essere positiva, nonostante tutto.
E allora questo post, più di tutti, lo dedico a un amico, un bevitore di Estathè che è un cantante e un musicista, uno che tutte le volte che lo vedo cerca di convincermi delle qualità afrodisiache dell'Estathè, di come una volta mentre accompagnava Oris a casa stava per chiederle «Mi fai salire?» perché al solo pensiero che a casa nostra avrebbe trovato dell'Estathè, già si sentiva più frizzante.
Lo dedico a lui perché ieri ha avuto una bella notizia, anche se è ancora il 2013; una di quelle cose che, quando te le dicono, quando sai tutto quello che c'è dietro, sei felice da impazzire, quasi da scrivere un messaggio a Zuckerberg per dirgli: «Dai, ti accontento! Fammi riguardare in breve queste ultime due mezz'ore!».

«Non capisco perché tu dica queste ultime due mezze ore invece di dire questa ultima ora»
«Perché due fa più volume di uno»
«E' una stupidaggine priva di senso»
«Lo so, ma forse non mi importa. Se non mi importa, vuol dire che almeno questa volta ho ragione io?»
«A questo punto, vale tutto»
«E allora diciamolo: oggi è 14/12/2013.
14+12+20+13=59
5+9=14»
«E quindi?»
«E quindi tra poco è il 2014 e tutto andrà meglio»
«Lo sai che il 2014 per i cinesi sarà sotto il segno del cavallo

Ok, manteniamo la calma: non posso promettervi niente.

venerdì 29 novembre 2013

Lupetthè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Quest'anno, durante il cambio di stagione, ho deciso di fare pulizia, di eliminare tutte quelle cose che non uso da anni, ma che ogni volta salvo, dicendomi: «Non si sa mai, potrebbero tornarmi utili». Non ho molti vestiti, calcolando gli usi e i costumi delle donne della famiglia dalla quale provengo: nella camera da letto dei miei genitori c'è un enorme armadio otto stagioni, ma mio padre è costretto a tenere i suoi vestiti in un'altra stanza; mia nonna ha comprato un baule antico e poi l'ha fatto ricoprire con della carta adesiva bianca, sperando che mio nonno pensasse di avere in camera un frigorifero e Oris ha innumerevoli grucce, decine di cappotti, cinquantacinque paia di scarpe (quelle le ho contate) e perfino una camicia da notte di tulle rosa taglia 60 della quale, se gliene chiedi conto, ti dice che ci sono cose che non puoi fare a meno di comprare, anche se non potrai mai metterle.
Quando mi sono ritrovata davanti alla realtà misera del mio armadio, mi hanno dovuto far annusare i sali di Estathè per farmi riprendere: niente ti può far sentire triste come scoprire di aver attraversato i decenni, senza aver mai fatto parte di niente. Non ho camicie grunge, non ho giacche con le spalline, non ho felpe hiphop, pantaloni a zampa o cinture con le borchie, nemmeno un paio di underground dalla para alta. No.
Io ho solo una collezione di lupetti che nemmeno Howard Wolowitz.

«Non c'è neanche bisogno di una bussola per orientarsi all'interno di questa giungla di amarezza!»
«E tu chi sei, con questo piglio giudicante?»
«Il mio totem è Topo Ragno Elefantino Peperino, sono qui per prenderti per mano e riportarti nel branco, come farebbe un bravo scout»
«In questa vita, non puoi dire la parola lupetto, che vieni fraintesa... Caro Topo Ragno Elegantino Saccentino: tante cose terribili mi potranno capitare nella vita, ma non potrai mai convincermi a indossare una gonna pantalone a costine di velluto blu»
«Hai un gilet oro. Luccica. Mi sembra molto peggio...»
«Tu indossi dei calzettoni di spugna che ti arrivano alle ginocchia, ti sembra di potermi giudicare?»
«Non lo so, ma questo gilet è una fonte di energia rinnovabile, potrebbe illuminare il Molise. Vogliamo darlo via? Vogliamo fare questa opera buona?»
«Non si sa mai, potrebbe tornarmi utile»
«Parola di scout?»
«Parola di Umpa Lumpa della scienza. Cerca di rispettare le categorie, lupetto»

Ci sono peculiarità personali dalle quali non ti puoi salvare, anche se l'eleganza matriarcale della tua famiglia spinge sugli scaffali del buongusto, anche se orde di femmine della tua taglia ti iniziano al comunismo come principio base dell'abbigliamento.
Se per dieci anni della tua vita andrai avanti a indossare maglioni a collo alto, siamo spiacenti: non ti puoi salvare.
«Oris, perché stai rovistando nell'armadio di mamma?»
«Perché quello che è suo è pure nostro e poi stiamo rovistando, tutte e due»
«Io ho i miei di vestiti, sto solo facendo il palo. Controllo che non arrivi il Ranger Smith...»
«Iris, quante volte te lo devo dire? Guardaroba è un sinonimo di armadio, non c'entra niente con i guardaboschi, non arriverà nessuno ad arrestarci, io e te non siamo Yoghi e Bubu...»
«Rovini tutte le mie storie»

Passano gli anni e i cambi di stagione, mutano le taglie, le mode e i gusti, non compri più nemmeno un lupetto nero e cerchi di indossare le bretelle solo in caso di estrema necessità, eppure, sappilo, non è cambiato nulla: l'onta, il destino, il gilet oro, lo spazio nell'armadio.
Sei marchiata a fuoco per sempre.

Mentre chiudo la scatola che contiene l'ineluttabilità del mio futuro da posseditrice di sole tre paia di scarpe per volta, me lo ricordo.
Io e mio padre siamo seduti sul divano ad aspettare che mia sorella e mia madre siano pronte. Mia sorella dice «Sto scendendo» un quarto d'ora prima di iniziare a truccarsi, perché lei sa prendersi il suo tempo, oltre che il suo spazio, e siccome non ha ancora detto niente, sappiamo che staremo lì ad attendere per un bel po'.
Io, invece di darmi all'alcolismo, inizio a sorseggiare Estathè e fisso mio padre, chiedendomi perché ha già indosso il cappotto e la sciarpa, anche se siamo in casa e c'è il camino acceso. Lui capisce e mi dice «Mi sono messo un maglione a collo alto, se mi vede tua madre litighiamo», ma io so che quello che mi vuole dire veramente è che siamo degli esistenzialisti, siamo costretti a spingere un masso per l'eternità, ad avere un lupetto tatuato sull'epidermide. Siamo i Superman del minimale.

«E' un bel gilet»
«Davvero, Oris?»
«Sì, ma con tutta l'altra roba, al massimo ci possiamo spolverare. Quanti anni bui che hai avuto, sorella, meno male che ti sei ripresa...»
«E' solo una maschera, se mi apro il cappotto rosso e mi strappo la camicetta a pois, sotto ho un maglione a collo alto, è la mia seconda pelle. Io sono come Superman, è un destino di famiglia: siamo sensibili, siamo riflessivi, siamo introversi...»
«Lo sanno tutti che Superman era solo un boyscout coi muscoli»
«Oris, tu rovini tutte le mie storie» 

martedì 12 novembre 2013

Seduthè spiritiche

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Il freddo, ieri, ha voluto dare un colpo di reni, sui miei di reni e sulla mia schiena. Io ci avevo messo del mio, visto che avevo dormito a pancia in sotto, con una canottierina e con il collo all'aria: la cervicale era bene in vista, come se ci avessi disegnato un bersaglio sopra. Il cecchino del freddo mi ha colpito alle spalle, come i vigliacchi, come quell'amico burlone che, quando ti tagli i capelli, si sente in dovere di darti un coppino sulla nuca.
Mi sono alzata dal letto con fatica, climaticamente incredula.
In corridoio, ho incontrato quel termosifone di Pezzetta, con le infradito e la maglietta a mezze maniche, che mi ha detto: «Iris, hai visto? E' arrivato il freddo, mi sono messo i pantaloni lunghi».
Io non mi sono fatta rallentare dal suo dileggio e, con un vestitino con le bretelle arrotolato a mo' di sciarpa e le parigine sopra ai pinocchietti (non ho ancora fatto il cambio di stagione), ho continuato la mia camminata rigida verso la cucina.
Quando ho visto Oris, non sapendo da quanto fosse in piedi, non le ho rivolto la parola: è una delle clausole del contratto tra coinquilini, ma non dovete pensare che sia a suo favore. Per lei non c'è problema se le rivolgi la parola, è come se pesti il piede a un leone, non le fai poi così tanto male; il problema è che se non hai sgabello e frusta, rischi la morte.
Evidentemente, però, era già sveglia da un po' e, ravvivata dalla colazione che Pezzetta le aveva preparato, mi ha rivolto la parola.

«Se il tuo intento è citare il video di Paparazzi, dopo che Lady Gaga è caduta dal terrazzo, hai sbagliato outfit, ma la postura a ghiacciolo è perfetta»
«Lo sapevo: è finito l'Estathè!»
«I want your ugly/I want your disease/I want your everything/As long as it’s free/
I want your love/Love-love-love/I want your love»
«La situazione è seria, smettila di cantare»
«Iris, io non sto facendo proprio niente»
«Baby you’ll be famous/Chase you down until you love me/Papa-paparazzi»

E infatti non era Oris: la musica veniva da dentro il frigo, incartata nella carne cruda manco fossimo agli MTV Music Awards.
Il primo freddo è come il primo caldo: può succedere di tutto. Devi stare attento ad ogni cosa che dici perché se il vento muove i bicchieri o il sole ne evapora il contenuto, può essere che evochi tutto quello che pensi, come in una seduta spiritica.
Il bello, riguardo a Lady Gaga, è che il mio primo ricordo di lei è comunque legato al dolore: ero su un autobus che da Genova Caricamento mi avrebbe portato a Genova Pegli con un mio ex fidanzato, c'era traffico, era buio, avevo mal di testa e questi due ragazzini hanno pensato bene di farsi musica col telefonino e imparare le parole di Poker face.
«No he can’t read my poker face/(she’s got me like nobody)/P-p-p-poker face, p-p-poker face/(Mum mum mum mah)/P-p-p-poker face, p-p-poker face/(Mum mum mum mah)»
Ormai non riesco più a pensare a Genova, senza pensare P-p-p-poker face.
Per associarla a Via del campo, mi devo concentrare.

Impossibilitata a fare colazione altrimenti, mi sono messa un cappotto non mio sopra ai pinocchietti con le parigine, ho stretto il vestito con le bretelle al collo e mi sono diretta verso il Carrefour. Blocco del collo, colpo della strega, Pezzetta in infradito, Oris in vena di chiacchiere o Lady Gaga: niente avrebbe potuto fermarmi.
Peccato che, aperto il portone, mi sono ritrovata a Trieste: il vento mi faceva sbattere la borsa contro la schiena ed era ovviamente contrario al mio verso di percorrenza della strada. Ma soprattutto, non ho potuto pensare a Trieste senza pensare a lei.
«La mia vita è una roulette, i miei numeri tu li sai/Il mio corpo è un moquette, dove tu ti addormenterai»
Siccome arrivare al Carrefour era troppo, mi sono buttata in uno di quegli alimentari che ti succhiano il sangue solo se entri, che una bottiglia di Estathè la paghi come un diamante da un paio di carati. Raffa è venuta fuori da dietro uno scaffale di barattoli di fagioli, io ho gridato «Europa Europa» buttando la bottiglia di Estathè a terra e tutti mi hanno guardato male. Forse perché non ho detto il numero giusto dei fagioli contenuti nei barattoli.
«Pedro, Pedro, Pedro, Pedro, Pe.../Praticamente il meglio di Santa Fe/Pedro, Pedro, Pedro, Pedro, Pe.../Soli io e te»
Il bello, riguardo a Raffaella Carrà, è che mi ha sempre fatto pensare a mia madre che, a parte il fatto che è mora, le somiglia parecchio e anche lei canta e balla molto volentieri (ma solo in privato -sennò poi mi dice Su quel blog mi fai passare come una che non è normale!). Mammina cara, io non è che ti ci faccio passare, ti voglio ricordare che, quando ero piccola e non mi facevi fare colazione con l'Estathè, mi preparavi mezzo litro di latte bollente (al quale, avremmo saputo più tardi, sono intollerante) e mi obbligavi a berlo tutto. Io e Oris, per evitare di vomitare a scuola, buttavamo l'in più nel lavandino del bagno, una per volta, mentre l'altra faceva la guardia; e per capire quanto ti stessi avvicinando a noi, valutavamo i decibel di Pedro Pedro Pedro Pedro Pe...
L'uomo nero mi stava simpatico rispetto a Pedro Pedro Pedro Pedro Pe e ho giurato su quel latte versato che mai e poi mai sarei andata a Santa Fe.

Quando sono uscita dall'alimentari, la bora mi ha spinto verso casa senza bisogno che camminassi e mi ha fonato i capelli così bene che quando sono entrata, Oris mi ha detto: «Bella questa pettinatura, sembri Reinhold Messner»
E allora è arrivato lui e per il resto del pomeriggio ha ripetuto Altissima, purissima, Levissima, mentre dall'ansia e dal dolore, io mi facevo di Estathè endovena.

Attenti a quello che dite, leggete o pensate, durante i primi giorni d'inverno: se è destino crasso, ve ne libererete in fretta, se è destino tenue, vi aspettano metri e metri di congelatore, con indosso solo le infradito di Pezzetta.

lunedì 28 ottobre 2013

Lo zen e l'arthè della manutenzione degli insetti

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Se arriva novembre e giri ancora a mezze maniche, inizi ad avvertire un palpito di confusione. Ma come? E' autunno inoltrato, è subentrata l'ora legale, dovrebbe essere finito lo stress umorale ciclico provocato dal cambio di stagione!
Io voglio che la cipolla rientri nella mia vita portandosi dietro l'aglio, voglio chiudere a chiave Gaviscon in un cassetto, voglio tirare fuori i vestiti più pesanti senza sudare.
Perché non posso procedere dritta verso l'inverno? Cos'è veramente reale? Che senso ha il tempo? Perché esistiamo? Come faccio a esercitare la calma in un mondo in cui Ronn Moss, dopo 6400 puntate di Beautiful, dopo venticinque anni che interpreta Ridge Forrester, viene sostituito?
E, se a causa dell'ambiguità climatica, io dovessi decidere di non rinnovare il contratto a progetto che ho con me stessa, che succederebbe? Entrando in camera mia, Oris vedrebbe un'altra persona a tracannare Estathè, fissando la tavola periodica degli elementi? Leggerebbe una scritta di recast in sovraimpressione: «Il personaggio di Iris verrà interpretato da Gegia nel prosieguo delle puntate»?
Cosa diavolo mi sta succedendo? Perché mi sento in un limbo di confusione, come se fosse colpa della temperatura il fatto che non riesco a passare sotto il bastone? Perché non ce la faccio a calmarmi?
Eppure, quando sono tornata a casa, lo scorso week end, eravamo invasi dalle cimici verdi, così come dovrebbe essere in un autunno chiaro e limpido, senza ripensamenti.
Questo mi avrebbe dovuto pacificare con l'autunno.

«Papà, cos'è questa puzza?»
«Devi aver schiacciato una cimice. Come quasi tutti gli eterottori, anche i pentatomidi, per difendersi, rilasciano una sostanza fortemente revulsiva»
«Secondo te, può essere che il dipartimento della difesa degli Stati Uniti sia a forma di pentagono per ricordare una cimice? E' per questo che le piccole spie si chiamano cimici? Può essere che la Merkel ha scoperto il datagate perché ha sentito la puzza?»

Mio padre, ovviamente, non ha risposto a queste domande, non perché fossero retoriche o surreali, o perché fosse lapalissiana la babele delle mie questioni e la tangente intrapresa. Mio padre non ha risposto a queste domande, per il semplice fatto che lui è una voce fuori campo discriminatoria: politica internazionale no, tipologie di serpenti sì; sentimenti e ammennicoli vari no, funghi velenosi e mescole polimeriche sì.

«Papà, ti presento Pezzetta, un mio caro amico»
«...»
«Sai, accetta la mia dipendenza dall'Estathè e fa le pulizie al posto di Oris...»
«...»
«Svegliatosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando un poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta del letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai suoi occhi...»
«Dunque, caro Pezzetta, hai subito una metamorfosi. Potremmo risalire alla tipologia di insetto, se mi dai maggiori informazioni»

Insomma, Kafka sì, «Con quale parte del mio corpo ho schiacciato questa fottuta cimice visto che la puzza me la sto portando dietro per tutta la casa?» no.

Se arriva novembre, giri ancora a mezze maniche, all'orizzonte non c'è ombra di un lavoro sensato o di un'esistenza chiara, la domanda dell'Estathè non si abbassa a causa del caldo, il viaggio sul regionale che ti riporta a casa non è per niente filosofico, flotte di cimici rincoglionite ti rumoreggiano intorno fino a che non ti siedi su una di loro (crepandola c'u mazz, come hai fatto con i Rayban vintage anni ottanta di tuo padre che, però, grazie al cielo, non puzzavano così) e poi scopri che per tua nonna, Ridge o non Ridge, è sempre Beautiful e che Il muto (ovvero tuo padre come lo chiamano i suoi amici della squadra di caccia al cinghiale, visto che non si degna di rispondere alla ricetrasmittente) si è preso una zecca dei boschi, certo che inizi ad avvertire un palpito di confusione e perpetri nella mancanza di calma. Altro che metafisica della qualità. Altro che non esistono più le mezze stagioni. Altro che lo zen e l'arte di procedere verso i livelli più elevati di svuotamento dalle ansie.

«La zecca è un ectoparassita ed è ematofago, si nutre di sangue»
«Dunque non conosce il concetto buddista della vacuità...»
«Spesso si stacca da sola dopo che ha finito il suo pasto, per questo non l'ho tolta subito»
«Oscilli tra essere una pagina di Wikipedia e una di Yahoo Answers, papà. Penso che, in caso di metamorfosi, diventeresti Philippe Daverio»
«...»

Se mio padre non soffrisse di mutismo selettivo avrebbe dovuto rispondermi con la frase simbolo della mia amicizia con Core.
Quando un ospite finisce il mio Estathè, quando le giornate sembrano non avere senso, quando Gegia si taglia i capelli corti per entrare di più nel mio ruolo, quando pesto tre merde con cinque passi e ottobre non sembra ottobre, io chiamo Core e lei, con lo stupore necessario a non farmi sentire pazza, esclama: «Ma che davero Daverio?», come se la filosofia estetica del mondo potesse essere salvata da una mano a cucchiara.
E' così che io mi calmo, respiro e divento vacua.
Come una bottiglia di Estathè a fine ottobre.

Prego, novembre, puoi arrivare: io e Gegia siamo pronte.

venerdì 18 ottobre 2013

Verdure gratinathè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

La settimana scorsa sono stata invitata a un pranzo della domenica: pizzette, pasta al forno, farinata di ceci, verdure gratinate e non, torta al limone, mise en place in terrazzo, amiche che tornano sudate dal tiro con l'arco, altre che vanno a fare tatuaggi o da Leroy Merlin o a farsi tatuaggi da Leroy Merlin... Tutto, era tutto perfetto, quasi magico, tanto che sul terrazzo con noi c'erano anche Emily Dickinson e Virginia Woolf: la prima decisamente (e sorprendentemente) più ciarliera della seconda.
Eppure, è bastato un attimo perché ci mettessimo a parlare di maledizioni hollywoodiane e malattie, invece che di inciuci e bagordi.

Lo sai che pure io soffro di gastrite, I? Mi raccomando non andate in macchina con M, è praticamente cieca. Io mi sono fermata alle emicranie, A, ma potrei spostarmi anch'io sull'apparato gastrico se è così in voga. F, io non sono cieca, ho solo qualche allucinazione. Io sono L e sono un uomo, non parlo delle mie malattie. Ma non ti fa male bere l'estathè? Perché nessuno mangia le verdure non gratinate? Dàlle a Virginia, M, le mangerà lei.

Quando inizi a fare i pranzi della domenica, invece delle uscite del sabato sera, ti metti d'accordo per scambiarti articoli di medicina psicosomatica e fai bullismo contro Virginia Woolf, è ufficiale: non sei più il giaguaro di una volta.
Se mai quel giaguaro lo sei stato.
«Dormi tranquilla, Iris. Tu quel giaguaro non lo sei mai stato. Non sei mai stata nemmeno una tigre, un leone, un tenero micetto ben gratinato al forno...»
«Magica Magica Emi? Proprio tu a dirlo! Quando guardavo il tuo cartone, avevo già una precoce e incontrollata dipendenza da teina, ascoltavo i dischi in vinile di mio padre, suonavo la batteria, andavo a cavallo... Ero una bimba rock and roll!»
«Cara, mentre Oris si dimenava a squarciagola davanti alla sigla, tu la cantavi a bassa voce, con un senso di terrore e frustrazione che non ti ha mai veramente abbandonato. Altro che rock and roll!»
«Scusami, May, o Emi, chiunque tu sia delle due. Parliamo di un ritornello che diceva: C'è un cuore sul bracciale/ che è magico perché/ può sempre trasformare/ May in Emi, Emi in me... Non potevo non mettere in conto il fatto che, per colpa di quel cazzo di folletto che ti aveva donato il braccialetto, tu avresti potuto trasformarti in me in qualsiasi momento della mia vita, non credi?»
«Dì la verità, sei tu l'amica con le allucinazioni, vero?»
«No, non sono io. E poi, senti chi parla! Una bambina roscia prestigiatrice che, quando ha avuto la possibilità di trasformarsi, ha scelto i capelli azzurri. Che cattivo gusto...»
«Devo dirti una cosa che ti abbiamo tenuto nascosta per anni, io e Oris. Sei pronta? Il braccialetto donato da quell'amore di folletto, poteva trasformare May in Emi e Emi in May. Non eri tu la protagonista di quella sigla, Iris...»
«Che cosa? Ma voi mi avete rovinato la vita! Io ho fondato tutto su quella eventualità, mi sono preparata! Sono nata verdura gratinata e mi avete fatto diventare pian piano un cavolo bollito, è questa la verità. E' questo il motivo per cui, a un certo punto della mia carriera scolastica, dopo tredici anni passati a essere la prima della classe, ho avuto la brillante idea di iscrivermi a ingegneria meccanica. Sono colpa vostra i patimenti della cottura al vapore, i pomeriggi passati a disegnare con autocad i meccanismi a camma con disco eccentrico e cedente traslante, oppure le notti passate a risolvere assurdi esercizi di meccanica dei solidi, per non parlare delle mattine di lezione passate a osservare le migliori menti della mia generazione farsi calve dal giorno alla notte per lo stress di tutte quelle materie tutte insieme. Mi avete causato l'assenza di vita sociale, il bruciore di stomaco, l'aria condizionata delle aule studio il 29 luglio, che quando uscivi ti veniva un coccolone e nessuno poteva aiutarti perché era il 29 luglio ed eri rimasto solo tu a bestemmiare contro le variabili termodinamiche per l'orale di Fisica Tecnica. Come quando i genitori ti vengono a trovare nella tua casa di studente fuori sede e appiccichi le tende con lo scotch perché tanto devono star su solo quel giorno. Ho fatto tutto questo per senso di ospitalità e tu... Emi perché? Perché non ti sei mai trasformata in me?»

I, stai bene? Guarda che quella è Virginia, non è Emily. F, visto che non sono l'unica con le allucinazioni su questo terrazzo? A, mi sta venendo l'emicrania. I, vuoi andare a fare un giro in macchina con M? Spiritosa, forse le farebbe bene bere dell'estathè. Io sono L e sono un uomo, posso andare in bagno? Mangiati due verdure non gratinate, ti faranno calmare.

L'autobus ci ha messo un'ora e quaranta per riportarmi a casa. Grazie all'ATAC, mi è sembrato di essere andata a pranzo a Firenze o a Napoli o da Leroy Merlin.
Immotivatamente, durante tutto quel tempo, non ho fatto che pensare al giorno in cui mi sono laureata, che era venerdì 17 dicembre, nevicava, io speravo ancora che Emi si sarebbe trasformata in me e Oris mi aveva spinta a indossare i RayBan vintage anni ottanta di nostro padre. Quel giorno, a conferma di quanto poco io sia gratinata, mi sono seduta sugli occhiali da sole e li ho spaccati.
Durante tutto il viaggio di ritorno dal pranzo della domenica, sono riuscita a pensare solo alla faccia sconvolta di Oris davanti ai suoi due pezzi di RayBan (tutto quello che è nostro appartiene in realtà a Oris, visto che è l'imperatrice dell'universo) e a Pezzetta che le dice: «Uà, che fa? L'ha crepati c'u mazz».
Al prossimo pranzo della domenica, me lo farò tatuale sul braccio.
Uà, che fa? L'ha crepati c'u mazz...
Amici, che giaguaro.



martedì 8 ottobre 2013

I pomeriggi senza thè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

C'è sempre un momento di scoramento nella solitudine: è quel vestito che non riesci a chiudere da sola, è l'Estathè che termina e non puoi chiedere a nessuno di andare a procurartelo, è il cinema con la coppia davanti a te che pomicia e beve dei brick di Estathè («Oh, ma dove li avete comprati?»), è la lampadina che ti si fulmina e tu che devi fare su e giù dalla scala venti volte per stringerla e poi provare l'interruttore, ristringerla e riprovare l'interruttore, e la luce non torna mai.
Già, ti sembra che la luce non tornerà mai.
Quello è il momento in cui, di solito, la mia amica Marco Polo, donna di mondo e di veneta concretezza, mi dice: «Senti, Iris, io finisce che mi iscrivo a Meetic»; oppure mia madre, in macchina, mentre mi porta -a digiuno- ad affrontare la gastroscopia, afferma sicura: «Il medico lo conosco e mi sembra proprio il tuo tipo...», che ti verrebbe da dire «Certo, mamma: lo conquisterò con un conato di vomito», ma non puoi perché hai già un conato di vomito.
Come tutti i nati degli anni ottanta sanno, c'è solo una voce che può accompagnare tutto questo: capelli neri, ostinata gettoniera a separarli sulla testa e fianchi larghi melodicamente italiani.
La settimana scorsa, quando quei due debosciati membri della mia famiglia mi hanno abbandonato, è arrivata lei a farmi compagnia, cantando la solitudineee, questo silenzio dentro teee...
E, nella malinconia degli amarcord, abbiamo parlato del mio primo amore Marco che, anche se si chiamava come il suo (e come la mia amica veneta), non se n'è mai andato per non ritornare più, anzi: mi ha chiamato tutte le sere dei cinque anni delle elementari più i tre anni delle medie per chiedermi di controllare i compiti e, in queste millesettecento telefonate, mi avesse mai detto è l'inquietudine di vivere la vita senza te, 'sto stronzo.
Mi chiedeva solo di ripetergli i compiti per avere la sicurezza di averli segnati tutti, perché noi due eravamo i primi della classe e lui voleva che stessimo sempre allo stesso livello.
Laura Pausini avrebbe dovuto cantare La solitudine dei numeri primi della classe.
«Non è possiiibileee diviiidereee un nuuumero per zerooo, la solitudineee...»
«Hai visto Laurona? In metrica, ci sta...»

C'è sempre un momento di scoramento nello stare assieme: è quel pensiero che non riesci a concludere perché Oris si annoia e vuole che tu le presti tutta la tua attenzione, è Pezzetta che toglie dal frigo l'Estathè per metterci la sua birra, è il cinema con la coppia davanti a te che mentre pomicia ti dice che i brick li ha comprati nel supermercato affianco e Oris e Pezzetta ti impediscono di uscire dalla sala per procurartelo, è la pubblicità di adottaunragazzo.it che rompe tutti gli equilibri in casa, scatena l'inferno delle prese di posizione e induce alla lotta senza quartiere: il silenzio non torna mai.
Già, ti sembra che il silenzio non tornerà mai.
«Ma che non l'hai vista la pubblicità? C'è una vecchia! Secondo me, il sito funziona che tu, vecchia, sola con la pensione di cui non sai cosa fare, aiuti economicamente un giovane precario e lui magari ti telefona la sera, viene a pranzo la domenica... Sennò perché si chiamerebbe adottaunragazzo.it
«Sì, ha ragione Oris.»
«Ma dove vivete? E' un sito d'incontri! La pubblicità è ironica...»
«A volte mi domando se vivrei lo stesso senza te...»
«Laura, non puoi cantare mentre litighiamo!»
«Ma quale ironia! Ma perché devi sempre pensare che tutto giri intorno all'accoppiarsi?»
«Perché tutto gira intorno all'accoppiarsi!»
«Lì da sooola, dentro a un briiivido, ma perché lui non c'è...»
«La senti questa? Questa vende milioni di dischi in tutto il mondo parlando dell'accoppiarsi...»
Quando ho fatto partire una googlata su questa storia per sbugiardare Pezzetta in nome della versione sociologicamente impeccabile mia e di Oris, come prima cosa ho pensato che la battuta su Meetic della mia amica Marco Polo sarebbe dovuta cambiare, visto che Meetic è niente rispetto a questo sito di incontri in cui puoi mettere gli uomini nel carrello, c'è un contatore di parole dolci scambiate, una selezione con offerte e gli uomini ti possono mandare degli incantesimi. Non vorrei insistere, ma alla voce Serie speciale: i preferiti dalle mamme, mi è parso di vedere la foto del mio gastroenterologo.
Mi è venuto un conato di vomito.
Non per il sito o per il mio medico, ma per altri due motivi: innanzitutto, negli scaffali non c'era Estathè e, seconda cosa, aveva ragione Pezzetta.
Tanti catastrofici affari possono succedere nella nostra vita, ma non può accadere che abbia ragione Pezzetta: quella è davvero la fine.
Orde di cagacazzi si sono riversati per strada a festeggiare, Laura ha cantato Don't mess up my baby dei Black Lips in suo onore, lui e Marco (tornato solo per la grande occasione) hanno stappato una bottiglia di Estathè e il cielo si è fatto scuro d'improvviso.

«Oris, lo sai che racconterà questa storia per anni?»
«Lascialo fare, per una volta che ha ragione...»
«Non ti crea imbarazzo essere talmente in un altro mondo da non riconoscere un sito d'incontri nemmeno se te lo sbattono in faccia?»
«No, mi crea più imbarazzo conoscere a memoria tutte le parole de La solitudine»

Pezzetta sta ancora festeggiando per la sua vittoria, si è accodato ai caroselli dei romanisti.
Se lo incontrate per strada, in un carrello della spesa insieme a Laura Pausini, dategli un'occhiata: è il piatto del giorno, scontato, in offerta, insomma, basta che ve lo prendete.
Si chiamano saldi.

E non c'è mai un momento di scoramento durante i saldi. 

domenica 22 settembre 2013

In thènera età

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Da quando ho iniziato a essere una tipa sportiva, con questo fatto che le palestre sono piene di specchi nei quali ti puoi guardare mentre l'istruttrice di Fit Burlesque ti dice Ora, sensualità a corpo libero, è aumentato il mio leggero problema di dismorfofobia.
La suddetta patologia mi fa pensare di essere sempre troppo alta, troppo sgraziata, troppo imponente, in pratica un donnone (io lo so razionalmente che non è così, ma poi vedo tutta questa gente minuta intorno a me...): l'ortopedico mi ha detto che questo è il motivo per cui ho un atteggiamento cifotico. In pratica, passo troppo tempo con mia sorella e, a livello inconscio, mi sento la bambina che ha comprato la Polly Pocket bionda o Gulliver che è sbarcato a Lilliput, un paese in cui la gente è alta come un brick di Estathè; quindi mi incurvo e cerco di diventare più piccola.
Leopardi, avendo capito che le mie deformazioni erano troppo prosaiche per i suoi gusti, mi ha abbandonato di fronte a quello specchio, senza nessuna intenzione di esprimersi in una sensualità a corpo libero e, nell'immobilità di quel silenzio carico d'imbarazzo, è arrivato lui: il mio trauma rosso, calvo e in falsa camicia, al grido di: «Belin, Leopardi, ti spacco la faccia!».

Per spiegare questo trauma, devo tornare a un tempo lontano, fare un passo indietro verso la tenera età, anche se più che tenera, io sono sempre stata molto stoppacciosa.
(Oris sostiene che si può parlare di tenera età entro i tre anni, tre anni e mezzo al massimo, che lei non mangerebbe mai un bambino quattrenne, sarebbe già troppo duro. Ma si sa che Oris è un buongustaia).
Faccio fatica a fare questo passo indietro, proprio a causa della mia dismorfofobia: non riesco a pensare di essere mai stata fisicamente piccola. Quando, quest'estate, ho ritrovato il mio completino da giovane fantina, ho passato varie ore con le braccia infilate nei pantaloni beige e il cap che mi copriva metà testa, a riflettere su quanto e perché si fossero sviluppate così tanto le mie ossa; fino a quando non mi ha visto mia madre in quelle condizioni e mi ha detto: «Non sei mai stata normale, ma quandanche volessimo affrontare tutto questo con l'ippoterapia, hai bisogno di un completino nuovo».
Eppure c'è stato un tempo lontano, da qualche parte, in cui io sono stata piccola, addirittura più piccola di Oris.
«Tutti gli anni, mi obblighi a mettere vestiti di carnevale usati. Tutti gli anni, sono costretta a essere un personaggio che mia sorella è stata già. Me lo ricordo come se fosse ieri» mi dice mia madre quando vuol farmi sentire in colpa «hai recitato quell'accusa e mi hai guardato come se fossi la madre peggiore del mondo»
Leggenda narra che, dopo che l'ho smascherata, mia madre mi ha portato in un negozio di maschere. Quella furbona linguistica.
«C'è la principessa delle nevi, ci sono Barbie Manager e Barbie Gran Galà; guarda c'è anche la principessa Sissi! Sono bellissimi Iris! Quale vuoi che sia il vestito tuo solo tuo?».
Non so se è stata la sua domanda ironica, quel tuo solo tuo, o se è stato il fatto che non sono mai stata normale, ma, a quel punto, ho visto rosso, ho visto calvo, ho visto falsa camicia e ho detto: «Mi voglio vestire da Gabibbo».
Pausa. Faccia basita di mia madre. Acquisto. Trauma.
Era il 1991, avevo sette anni, e il pomeriggio di quel giovedì grasso, in un imbarazzo incredibile che mi ricorderò per sempre, Iris-Gabibbo e Oris-Marie Antoinette uscirono di casa mano nella mano.
(Sono quasi certa che la stessa scena si sia verificata in casa Coppola e che questa sia la motivazione della carriera cinematografica di Sofia: non tanto Marie Antoinette, più la parte delle Vergini suicide).
E' stato il peggiore carnevale di sempre: tutte le principesse mi guardavano, i pirati e i zorro mi sfidavano a singolar tenzone, c'è stato perfino un arlecchino che mi ha riso in faccia. Era come uno di quei sogni in cui cammini nudo per strada e non sai perché e non puoi farci niente, perché Marie Antoinette si sventola con la sinistra senza lasciarti libera la mano e tua madre ti guarda con lo sconcerto di chi si ripete: «Figli piccoli, problemi piccoli. Figli grandi, problemi grandi. Cosa mi riserverà il futuro?»

Quando l'istruttrice ha alzato la musica e ha iniziato a muoversi, io ho chiesto con voce sottile se gli addominali potevano considerarsi validi e quello sboccacciato del Gabibbo ha iniziato il suo show.
«Mea, ragassa, mi sei simpatica! Facciamola insieme questa sensualità a corpo libero»
«Vattene via, frodatore razzista, lo sanno tutti che il tuo costume appartiene a Big Red, la mascotte della Western Kentucky University...»
«Uè, besugo d'un besugo»
«...ecco, appunto, besugo è un sinonimo di terrone...»
«Ti sei fatta un lifting col leasing? Mea, mi sei simpatica!»

Ovviamente, non ho fatto l'esercizio di sensualità a corpo libero, visto che perfino il Gabibbo era più aggraziato di me, nonostante sia il pupazzo più imbarazzante del secolo, nonché l'unico costume al mondo che impedisce la fruizione dell'Estathè durante il suo utilizzo.
Freud, l'ortopedico che si occupa di correggere i miei atteggiamenti cifotici, dice che vestirmi da Gabibbo è stato un modo contorto per esprimere la mia diversità, per rendermi ridicola, una specie di masochismo infantile con l'accento genovese.
Perché non mi sono vestita da fantino, da Gulliver, da Polly Pocket oppure da brick di Estathè? Perché, dopo un anno sabatico (l'anno dopo mi sono chiaramente rifiutata di indossare alcunché), ho rinunciato alla sobrietà in nome di un costume da finestra? Perché a ventinove anni, mano nella mano con Oris, sto seguendo un corso di Fit Burlesque?
«Perché sei un macaco perdibraghe, ecco perché!»
A fine lezione, sembrava sparito, sembrava esserci più spazio nel mondo, io mi sentivo addirittura più piccola; invece era in agguato dentro l'armadietto, pronto a cantarmi: «Tutto torna, tutto nasce, nella rumenta...»

E' ufficiale: la vita è un incubo senza fine e va in onda su canale cinque.
Mamma mia, quanto odio il Gabibbo!

giovedì 12 settembre 2013

Pilathès

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Mia sorella Oris ha acquisito, nel tempo, diverse specializzazioni: ha un master in persuasione silenziosa di soggetti iperattivi (fa le cose con una lentezza talmente snervante da condurti a terminarle al suo posto, pur di vederne la fine -ok, lo ammetto, sono io il soggetto iperattivo), un diploma in movimenti ondulatori post-cena (riesce a girarti intorno mentre sparecchi, facendoti pensare che ti sta aiutando, ma in realtà la sua è la danza di chi non sta muovendo un dito) e una laurea in Se fossimo in un mondo giusto, io ne sarei l'imperatrice.
Poco tempo fa, abbiamo ritrovato un suo tema delle elementari (ripeto: elementari!) che cominciava così: «Io ottengo sempre quello che voglio...».
Credo che, a tal fine, lei utilizzi una forma raffinata di pressione. Pressione bassa, ovviamente: molto bassa. Un'ipotensione che non riusciamo nemmeno a percepire ma che ci lavora ai fianchi, mistifica, confonde le carte in tavola, e porta a:
«Pezzetta, perché stai lavando i piatti?»
«Perché Oris li ha lavati ieri e oggi a pranzo»
«Veramente, ieri li ho lavati io e oggi, a pranzo, lei nemmeno c'era»
«Cazzo, m'ha fregato pure oggi. Vabbè, tanto ormai ho finito...»

E' stato così che è successo tutto. E' stato così che io e Leopardi ci siamo ritrovati su uno step, in imbarazzo, sudati e senza che io potessi bere Estathè.
Ora, come ben sapete, ho già il mio bel carico di problemi, quindi lo sguardo fisso di Oris, con quegli occhi giganti da Pollon Combina guai, e il mantra Andiamo almeno a vedere com'è la palestra che ha usato contro di me, non ho potuto sopportarlo oltre un certo tempo.
Dopo sette anni, ho ceduto e l'ho seguita.
L'infida biondina dei Ricchi e poveri, mentre io guardavo veramente com'era la palestra, ha tirato fuori il bancomat e ha fatto l'abbonamento di tre mesi per entrambe; poi mi ha detto «Ormai ho pagato, ora ci devi venire». E poi, piano piano, dentro di sé, io lo so, si è detta: «Io ottengo sempre quello che voglio!».

«Irisù, tu non me pòi fa quescdo. Ce simo messo tandi anni pe' fatte venì quella bella gobetta sulle spalle. Mo' la volemo perdè cuscì, de pundo in bianco?»
«Giacomo, lo so, ma mi ha ricattato»
«Se chiama Silvia 'sda stronza, vè?»
«No, si chiama Oris»
«Eravamo quasci arrivadi alla seconda gobba, c'eravamo quasci. Scendi da sto scalino, 'namo a scrive 'n sonetto...»
«Giacomino, non so che dire. Ora non mi distrarre, però, sto facendo GAG!»

Il ventinovesimo cerchio della mia vita, in questa quotidiana (e poco divina) commedia, è stato finora suddiviso in tre gironi infernali: rottura del gancio della tenda, matrimonio senza amore con il Gaviscon e scoperta dell'esistenza del GAG.
Gambe-addominali-glutei è una forma di tortura moderna, durante la quale un istruttore sudato dai bizzarri gusti musicali racconta a uno specchio pieno di donne molto più sudate di lui una serie di mosse ritmate con step, tappetino e bilanciere.
Mentre Giacomino beveva Estathè alle mie spalle, cercando di trovare un termine giusto per descrivere le ragazze di quella classe, a me ne è venuto in mente solo uno, in romanesco.
Erano «ingarellate». Eravamo ingarellate.
Io, che inciampo pure a ballare l'Hully Gully, mi ostinavo ad andare avanti anche se usavo sempre il piede sbagliato, muovevo sempre il braccio opposto; mentre Oris, molto più musicale, seguendo meglio, assumeva un colorito sempre più nefasto, molto simile al ravanello, che contando che di solito è una bambola di porcellana che ha mangiato troppi latticini, faceva davvero impressione.
«Simo pazzi? Guardate che potete morì se 'nnate avandi! Altro che sudate carte
Quando ci ha fatto stendere a terra, la mia esofagite si è fatta sentire: ho guardato Oris, Oris ha guardato me e ha capito che mi stava venendo la nausea perché non posso essere distesa senza un sostegno per la testa.
«Ti prego, non vomitare», mi ha detto.
«Soffrirei troppo nel non poterti riprendere con l'iPhone. Lo sapevo che dovevo portarmelo!»
La sorellanza è un amore profondo, si sa.

Grazie alla disambiguazione su Wikipedia, Leopardi è tornato indietro da gag, scena umoristica a GAG, sequenza di esercizi di fitness, io ho finalmente bevuto un po' di Estathè e mi sono salvata.
Potevamo morire, ma non siamo morte. Oris ci ha messo tre ore a tornare del suo colorito naturale e non ci siamo dette del disagio vissuto fino a quando non abbiamo incontrato il Pilates, ugualmente faticoso, ma molto più consono alle nostre peculiarità.
«Qui mi sento più a mio agio», mi ha detto Giacomo. «Te posso pure legge' le poesie, mentre mantieni la posizione...»

«Pezzetta, lo sapevi che abbiamo più di settecento muscoli nel nostro corpo?»
«No»
«Io e Iris ne usavamo meno di un decimo, calcola che tutti gli altri ci bruciano»
«E quindi?»
«Puoi lavare tu i piatti?»

Il Pilates incoraggia l'uso della mente per controllare i muscoli.
Oris utilizza lo scoramento dei muscoli per controllare la mente.
Pezzetta lava i piatti e io, con molto probabilità, mi ritroverò a «provare» un corso che si chiama Fit burlesque.

Ha sempre più armi contro di noi: lei è l'imperatrice del mondo.