Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

lunedì 22 agosto 2016

Thèoria e pratica dell'invisibilità

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Fin da piccola, ho sempre sperato di imparare a sparire, pensavo che avere un potere del genere mi avrebbe salvato da tante situazioni. Riuscire a smolecolarmi davanti ai momenti di imbarazzo o di pericolo, diventare trasparente quando facevo incazzare mia madre o liquefarmi davanti a un minestrone che non volevo mangiare mi sembravano tutti obiettivi che valeva la pena di inseguire.
Non essendo in possesso di un dispositivo di occultamento, un mantello dell'invisibilità, una pozione o una sistemazione speciale di lenti che mi rendesse invisibile, mi sono dovuta adattare alla realtà dell'essere una babbana non ammessa a Hogwarts e il mio addestramento verso il raggiungimento del potere è passato attraverso propositi, progetti, ettolitri di Estathè e almeno un tentativo pratico di sparizione.
Avevo dieci anni ed ero andata in campeggio a Civitella Alfedena con un gruppo organizzato da un'associazione del mio paese: ho pensato che il primo viaggio da sola era un'occasione immancabile per fare una prova tecnica. Quasi ogni sera ci portavano in paese per una passeggiata e tutti si mettevano in fila davanti al telefono a gettoni del Bar del Lupo per chiamare i genitori. Tutti tranne me. Sparita. Dopo una settimana, il signore che era dietro al bancone ha detto: «Chi è Iris?» e mi ha consegnato un biglietto che conteneva un messaggio minatorio da parte di mia madre: se non l'avessi chiamata immediatamente, turpi cose mi sarebbero accadute.

«Ah è così che hai fallito il tuo primo esperimento? Comunque: piacere, io mi chiamo Pezzetta...» mi ha detto una voce da dentro l'orecchio.
«Ciao Pezzetta, sì: è così che ho fallito. E avrebbe fallito chiunque di fronte all'ira di mia madre, che conosci anche tu, visto che viviamo insieme da nove anni... o no?»
«Cavolo, è vero. Ora mi ricordo. Scusami, ma ogni tanto mi confondi con la tua invisibilità!»
«Beh, ne dovrei gioire, riuscire a scomparire nei meandri della tua memoria è un bel punto da segnare nel mio carnet, ma c'è quel fatto che tu sei fortemente rincoglionito, quindi non me la sento di prendermi tutto il merito...»
«Vero. Questa è l'altra possibilità...»
«Ti ricordi quando pure tua madre faceva fatica a individuarmi con precisione? Mi chiamava Lasorelladioris, tutto attaccato, una specie di patronimico che mi designava sulla base della mia caratteristica più evidente: mia sorella»
«Sai che non sono certissimo che adesso conosca il tuo nome? Te lo dico per onestà intellettuale...»

Fallito il tentativo di sparizione, ho capito che la parte pratica, quella di azione e di istinto, non era la caratteristica sulla quale puntare, quindi ho cominciato a giocare di riflessione, ho sviluppato: un certo tipo di silenzio meditativo, una posizione defilata del corpo all'interno degli spazi comuni, la gobba (in modo che la mia testa non spuntasse fuori quando camminavo in gruppo con le mie amiche, visto che ero la più alta), il canto in playback, l'attenzione nel non far sbattere o cadere le cose, il non dare mai nell'occhio. Insomma, per raggiungere il grado massimo di potere ricercato ho scelto la milizia più aggressiva: la timidezza.
Con il mio esercizio solitario sulla bicicletta ellittica dei rapporti umani, ho ottenuto le mie prime vittorie: il non venire interpellata durante le discussioni, il non essere riconosciuta mai dalle persone – che è da allora che mi si ripresentano di continuo («Piacere, Asdrubale», «Asdrubale, io sono Iris, ci siamo già conosciuti bla bla, ti ricordi?», «Ah sì. Forse mi ricordo», con uno sguardo pieno di smarrimento da replicare all'incontro successivo) e poi l'essere completamente ignorata da tutti i ragazzi di cui ero innamorata (sì, alle elementari Marco mi telefonava tutte le sere, ma solo perché era un maniaco del controllo peggiore di me e voleva essere sicuro di aver fatto tutti i compiti).
Poi le conferme sono diventate più consistenti con lo sbocciare prima del rosso arroventato e poi del biondo targaryen dei capelli di Oris: la sua presenza è diventata di tale peso che quando mia madre diceva a qualcuno che una delle sue figlie faceva la scrittrice, nessuno pensava che potessi essere io, tutti guardavano verso di lei e le chiedevano: «Che bello! E che cosa scrivi?»; Oris ovviamente, che è conoscenza delle mie aspirazioni riguardo all'invisibilità e si presta sempre a interpretarmi quando è necessario, rispondeva raccontando tutto per bene (ha sempre avuto talmente tanto talento nel farlo che, una volta, mi hanno addirittura consegnato una pergamena con scritto il suo nome invece del mio). 
Poi, ovviamente, ad oggi, tutti i cassieri, le commesse, i baristi, i ragazzi che vendono la frutta su via Britannia e il pizzaiolo davanti casa nostra, mi salutano solo se sono con lei e quando capita – raramente – che mi riconoscono e decidono di rivolgermi la parola anche in sua assenza, comunque mi dicono: «Ciao. Come sta la biondina?».

«Però ora i social network ti hanno rovinato un po'...», mi ha detto Pezzetta, sempre da dentro l'orecchio.
«Vero. Ora tra selfie, geolocalizzazioni, foto in cui mi taggano anche se sono in fondo e tutta accartocciata su me stessa, ho perso molto potere: sono molto più visibile»
«Guardiamo il lato positivo: ora che è tua amica su Facebook, forse mia madre lo sa come ti chiami. Forse...»
«Già, forse. Ma più che altro, dimmi un po': adesso che sei andato via di casa per trasferirti a Londra, ricomparirai nella mia vita solo come voce fuoricampo?»
«Maybe»
«Che stronzo che sei! E poi non parlare inglese che Oris – lo sai com'è – fa ancora in tempo a denunciarti...»
«Comunque, scusa se non mi sono presentato, io mi chiamo Pezzetta, molto lieto di fare la tua conoscenza!»

Anche in questi tempi sovraesposti, in cui sembra che l'importante sia solo l'esserci, l'esserci, l'esserci costantemente, l'invisibilità continua a essere un potere importante, un'arma che, quando siamo noi a decidere, può essere sempre usata a nostro vantaggio – come scappatoia, come sistema di tutela o come metodo per sperimentare la libertà - ma, quando non siamo noi a decidere, quando la subiamo, ci deflagra come una bomba nel petto. Capito, Pezzetta?

Mentre ero a Riccione, qualche settimana fa, una cameriera si è totalmente dimenticata la mia ordinazione: ha portato sia da bere che da mangiare solo per due a un tavolo in cui eravamo sedute io, Oris e Wendy e siccome nemmeno vedendomi senza pranzo si è chiesta se si era scordata qualcosa o se io volessi qualcosa ed è andata subito via, ho colto la palla al balzo per spaventare Wendy. «La verità», ho detto, «non è solo che riesco ad essere invisibile. La verità è che io non esisto, sono solo una vostra allucinazione; gli altri non mi vedono...». Oris si è messa subito a ridere, ma Wendy no: Wendy, per qualche frazione di secondo, mi ha fissato, ci ha creduto, si è chiesta se fosse vero. E allora a me, che ne volevo ridere, la paura mi è rimbalzata contro e mi sono detta: «E se fossi come Cole ne Il sesto senso? O come un membro della famiglia Stewart in The Others? O come la nipotina di Charles Herman nel film su John Nash? O come Tyler Durden in Fight Club?».
Quindi mi sono spaventata, ho rincorso la cameriera e le ho detto: «Scusami, ti sei dimenticata la mia ordinazione. Forse non ti ricordi, ma ti avevo anche chiesto un brick di Estathè, che ora è diventato particolarmente urgente...»
«Oddio, scusami tu!», mi ha risposto lei. «In che tavolo sei seduta?».
«Quello lì in fondo, con le due ragazze».
«Ah, ma certo! Oddio, ci eravamo anche presentate. Tu sei Lasorelladioris, vero?». 
Io ho tirato un sospiro di sollievo e le ho detto: «Sì, sono io! Sai che mia sorella fa la scrittrice?».
«Certo che lo so», ha risposto lei.
Allora il mondo ha ricominciato ad avere senso.