Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

martedì 4 luglio 2017

De frathèllis

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Sfortunatamente, la storia di noi due non inizia con nessun Estathè. La storia di noi due inizia con mia madre ventiquattrenne che partorisce Oris, mio padre che si presenta in ospedale con delle orchidee – ha trovato solo quelle il giorno dopo ferragosto – e gliele mette ai piedi del letto. «L'infermiere mi ha detto: 'Ma suo marito pensa che lei sia morta?'», racconta ogni volta mia madre e lui ogni volta ride e risponde che non era ancora esperto. Non credo che ventitré mesi dopo fosse molto più esperto, ma eccolo di nuovo lì: stesso ospedale, stessa moglie, nuova bambina. Mia madre non avrebbe mai lasciato Oris figlia unica, ma io non dovevo arrivare così presto: sono capitata, quindi mio padre ha comprato delle rose al volo e ha badato bene di non metterle nel posto sbagliato. 
Il mondo di Oris ha tremato quando mi ha visto in braccio alla sua mamma: chi era quell'essere che attentava alla sua corona? Ha attivato il file disperazione e ha cominciato a piangere più forte di quanto io potessi mai fare, urlando a mia madre che doveva rimettersi in piedi e che doveva tornare subito a casa con lei.
«E la sorellina?».
«Chi se ne frega della sorellina».

Le cose poi sono migliorate: dopo che ci siamo odiate, picchiate, abbracciate, allontanate, recuperate, urlate contro, sostenute e prese in giro su ogni roba del mondo, le cose sono migliorate. Oggi lei è bionda, dispettosa e insolente, depreca l'Estathé, il suo personaggio su questo blog, i miei capelli se mi azzardo a farmi una coda – perché, a quanto pare, sono ancora troppo corti per legarli – e il fatto che non mi affidi a lei per tutto quello che riguarda le mie scelte etiche ed estetiche. Se la incontrate e avete la disgrazia di conoscerla potrebbe rincorrervi brandendo un'immagine sul cellulare e urlando: «Ma, secondo te, Iris non starebbe meglio vestita così?».
«Ti voglio bene come a una sorella», le dico sempre.
Spesso, mi include forzatamente nelle sue «storie» Instagram; a volte, mi fa perdere i treni perché rallenta il passo per riprendermi mentre stiamo andando alla stazione, capita perfino che mi chieda di ripetere dei gesti che ho già fatto perché se li è persi stando su Yoox a cercarmi qualche nuovo outfit o su Google Immagini alla ricerca di una ragazza con la carnagione come la mia e con i capelli azzurri per dimostrarmi che ci starei bene.
«Oppure...», mi dice: «...un'altra possibilità è che io e Ines ti facciamo rossa. Dai! Ti prego, ti prego, ti prego...».
In questi casi, la voce che mi insegue è quella di nonna Berta che, quando Oris inizia a sproloquiare su qualcosa, incastra il mio sguardo nel suo, dandole le spalle, e poi mi dice: «Non ci da' retta a sorda, chessa te fa perde' la via de lo campa'». Il problema è che Oris, volenti o nolenti, ci sta dentro alla mia via de lo campa'.
«Iris, ho molto riflettuto...», mi ha detto qualche settimana fa: «...e ti dico questo nella consapevolezza che ti ho già delegato altre parti della mia vita, quelle stoltamente più pratiche, ma non posso davvero esimermi. Mi sono resa conto di non essere stata molto lucida nelle scelte sentimentali degli ultimi anni, quindi vorrei che te ne occupassi tu, da questo momento».
Non c'erano né rose né orchidee quando ha proferito quelle parole ma io, che non mi scordo mai di una frase in sospeso, anche se sono passati trent'anni, le ho risposto: «Ah, adesso te ne frega della sorellina...».

Fortunatamente, la storia di noi due va avanti con molti, moltissimi Estathè. Oris me li lascia bere anche se li odia, così come io la lascio stare con questi uomini ridicoli che si sceglie anche se li odio. Ovviamente, faccio sempre le mie rimostranze, ma senza esagerare, snocciolo i giudizi necessari affinché poi io possa sentirmi dire: «Avevi ragione, Iris. Come sempre». L'ultimo era un tronfio motociclista egomaniaco col rolex che aveva un tempo massimo di concentrazione di 15 secondi per tutto quello che non lo riguardava, quindi parlare con lui era un esercizio di condensamento di informazioni: devo dire che, in questo caso, dopotutto, non è stato così difficile avere ragione.
«La ragione è dei fessi...», mi dice nonna Berta nella testa: «...e chessa te fa perde' la via de lo campa'!».
Tutto questo succede perché io e Oris viviamo insieme. Sì, noi viviamo ancora insieme e a me non sembra una cosa così strana: agli altri, molto spesso, sì. Quando questi altri vengono a saperlo, capita che ci guardino come se gli avessimo buttato addosso un sacco di materiale psicologico da analizzare e cercano di ricordare se c'è una sindrome come quella di Edipo o di Elettra, ma riferita ai fratelli. Romolo e Remo? Eteocle e Polinice? Mary Kate e Ashley Olsen? Il folto gruppo delle sorelle Kardashian? Jake, Francis e Sloth de I Goonies?
«Ecco le sorelle Versicolor!», ci dicono quasi sempre, quando usciamo insieme, come se fossimo un corpo unico – l'equivalente femminile della banda The Fratellis, appunto. Eppure, siamo talmente diverse che tutte le amiche che abbiamo avuto sembravano mie sorelle o sue sorelle molto più di quanto noi due sembreremo mai una la sorella dell'altra.

«Iris, ma che te stai a 'mpazzi'?», ha cercato di dirmi nonna Berta, da dentro lo specchio, quando Oris, in uno dei miei momenti di confusione causati dal suo shopping convulso – durante i quali riesce a convincermi di qualsiasi cosa (e infatti per un anno e mezzo ho avuto un cellulare rosa a causa del pressing subito riguardo all'idea che lei ha di come dovrei essere) – mi ha fatto comprare un chiodo identico al suo.
«È un must-have, nonna!», mi ha detto Oris mentre me lo provavo: «E non puoi preoccuparti del fatto che sembriamo due Thunderbirds della Rydell High School. Paga e andiamo». Solo una sorella che ti ha visto ballare in Grease a dieci anni, con una parrucca bionda, durante una performance del baby club in settimana bianca, può manipolarti con la Rydell High School. Solo una sorella può essere così crudele.
Comunque, dopo il fidanzato cinepanettone, non sono l'unica ad essere preoccupata per la vita sentimentale della sorella Versicolor, e così quando, in uno sketch surreale tipico della mia famiglia, è entrato un fisioterapista mentre Oris si faceva un'ortopanoramica, mia madre ha detto un paio di frasi che hanno portato a un biglietto da visita nelle mani di Oris. «Ecco, questo sì. No quegli psicopatici che te fanno perde' la via de' lo campa'» ha detto mia madre con la voce di mia nonna nella mia testa, in una convergenza spaziotemporale di chiacchiere, istinti e genetica che ha fatto sì che fossi io a dirlo a Oris.
«Non prendere le parti di mamma, Iris».
«Sto solo prendendo le parti della tua cervicalgia», ho risposto con una voce che sembrava di nuovo appartenermi.

Stranamente, la storia di noi due non finisce con noi che ci tiriamo dietro delle bottiglie di Estathè. Nonostante tutti i litigi e i giudizi di morbosità, rapporto insano e principio di follia e zitellaggine che ci sono stati appioppati, ogni mattina che possiamo balliamo ancora Chelsea Dagger Henrietta in corridoio – come se quel dannato di Pezzetta non si fosse mai trasferito a Londra.
«Certo che parli un sacco di tua sorella, eh...»; «Vivete ancora insieme? E siete single, vero? Se continuate così, non vi fidanzerete mai...»; «Iris, la radice di tutti i tuoi problemi relazionali è ben visibile in quella foto che hai in camera, quella del tuo primo compleanno in cui Oris sta spegnendo le candeline al tuo posto»; «Non puoi davvero decidere della sua vita sentimentale, così come lei non può decidere il colore dei tuoi capelli»; «Oris non ha la patente e tu non usi il contorno occhi? Ma voi allora siete proprio delle pazze?!?»; «Lo sapete dove vi porterà tutto questo? Alla fermata del 360».
Non so se Oris si fidanzerà con il fisioterapista carino, così come non so se mi farò i capelli azzurri, non so se riuscirò a fare lo sforzo di sorridere in una delle sue «storie» Instagram o se lei si ricorderà – una volta, per sbaglio – di buttare l'immondizia o di comprare qualcosa per la casa, non so quanto ancora litigheremo, ci minacceremo, ci aiuteremo o vivremo insieme, ma so che non esiste un modo sensato, semplice o sano di essere famiglia, di essere sorella, di essere persona. No: fortunatamente, sfortunatamente e stranamente, non me ne convincerete mai.
Quindi se incontrate le sorelle Versicolor e avete la disgrazia di conoscerle potrebbero rincorrervi indossando due magliette con scritto rispettivamente: «Iris ha sempre ragione» e «Io sono Iris», con Oris urlante: «Secondo te Iris non sta meglio tinta così? Puoi dire a mia nonna che non le sto facendo perde' la via de lo campa'?».
Ecco, non vi spaventate, è solo la storia di noi due.

martedì 18 aprile 2017

Guida per riconoscere la buona sorthè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Il fratello di mio nonno ha sposato una ragazza di Roma che il mio bisnonno chiamava La Romana: darle un soprannome era il suo modo di cercare di accettarla, trovare un punto per tenersela vicina pure se era diversa. Da piccola stavo sempre con lui a casa dei miei nonni e, quando mia nonna mi urlava di stare attenta, che potevo cadere perché per fare le scale pericolosissime di casa loro correvo come una forsennata, lui, serafico, sbuffava fuori il fumo di quelle sigarette di sterpaglie che gli piaceva rollarsi e sentenziava: «Solo La Romana è caduta da quelle scale...» come a dire che siccome era successo a lei, a me non poteva succedere. «Che fortuna», pensavo io.
Un giorno La Romana mi ha chiesto se mi piacevano davvero le bambole e io ho accennato un no con la testa, non ho avuto il coraggio di dirlo con la voce che le bambole non mi piacevano perché piacevano a tutte le bambine e io non volevo sentirmi diversa, ma siccome La Romana era diversa, quel giorno le ho detto la verità. Allora lei, quando è tornata a trovarci, ha portato a Oris una bambola e a me una confezione di Lego; io ero felice da fare schifo ma quando Oris, arricciando i boccoli della sua bambola e guardando con distacco le mie costruzioni, mi ha detto: «Mi spiace per te. A nessuna delle mie amiche è mai successa una cosa del genere...», «Eh già», le ho risposto: «Che sfortuna». 

Per tutta la vita, anche quando diventiamo grandi, facciamo un sacco di confusione tra la fortuna e la sfortuna: vediamo forme di immunità dove ci sono solo una serie di casi favorevoli, paragoniamo la nostra vita a una slapstick comedy ogni volta che inciampiamo nel tappeto del salotto, confondiamo i Paperini con i Paperoga e i Paperoga con i Gastoni, piangiamo con disperazione su un amore andato (a) male per poi dire che tra le persone che ci hanno salvato la vita c'è Chewbecca, per quella volta che ci ha lasciati via mail. Buona e cattiva sorte sono una specie di gnommero gaddiano, impossibile da districare. 
Un po' quello che mi succede con il percorso mentale di accettazione o rifiuto della mia dipendenza dall'Estathé: io penso che l'Estathè mi faccia bene, ma do retta alla mia dottoressa Penelope e ne bevo solo un bicchiere al giorno; poi, però, anche se so che ne dovrei bere solo un bicchiere al giorno, certe volte ne bevo due perché è stata una brutta giornata e «Me lo merito», quindi mi sento in colpa perché pare che faccia male, ma secondo me fa bene e poi di nuovo da capo. Insomma,  è complicato.
Per questo, durante gli anni, ho cercato di trovare delle perle di saggezza a cui appigliarmi, delle frasi, anche fatte, da incanalare in un flusso di ottimismo che mi potesse portare ad essere ben disposta verso le negatività, le sconfitte e certe incredibili sfighe, in modo da poterle usare come mantra e imparare a riconoscere la buona sorte ovunque, trovarla anche quando si nasconde per bene.

Tra i vari «Sì, vabbè, allora beati i minatori», «Dai che così stai accumulando punti karma» e ai «Comunque il mare è pieno di pesci», in mezzo ai bicchieri mezzi vuoti e mezzi pieni, e ai «Chiusa una porta si apre un portone», per me, ha sempre spiccato il POTEVA ANDARE PEGGIO©, un grande classico, mutuato negli anni di bocca in bocca, da Igor in Frankenstein Junior nella scena del cimitero a Core nei pomeriggi peggiori delle nostre vite, da il signor Rezzonico ne Gli Svizzeri di Aldo, Giovanni e Giacomo a mia madre di fronte ad ogni drammatico taglio di capelli che mi è toccato di avere. 
«Poteva andare peggio: può sempre andare molto peggio», mi dice una voce diversa, ogni volta. E io ogni volta mi incazzo perché penso che la voce ha ragione, che hanno tutti ragione, e che uno deve imparare a non lamentarsi di niente perché ogni cosa è comunque il male minore di qualcos'altro e mi ricordo perfino di un fidanzato di Core che, quando lei lo rimproverava, rispondeva: «Vabbè, però mica ho scoreggiato...», tipo a dire che quello era il limite massimo dell'orrore e che qualunque evento al di sotto di quella soglia era perdonabile, giustificabile, un'incontrovertibile buona sorte. 
Quando succede qualcosa, inizio a ripetermi il mantra, mi dico che anche se Oris e Draco Malfoy mi hanno fatto perdere il treno di andata, anche se quando siamo arrivati a casa dei miei il mio vicino è stato punto da un'ape sul collo e ci si è accasciato davanti agli occhi, poteva andare peggio. Mi dico che anche se Draco ha promesso a mio padre che avremmo preso il porto d'armi e ha spaventato mia nonna dicendo che Oris pesa come una bambina delle elementari senza merendina in tasca, anche se sono caduta mentre cercavo di prendere dei cetriolini sottaceto e Draco si è ferito sbattendo la testa al sottoscala, poteva di certo andare peggio. Mi dico che anche se la mia imboscata di sei donne contro Draco non ha funzionato e lui non solo ha resistito ma è anche risultato insensatamente simpatico, anche se il treno di ritorno ha portato un ritardo di 75 minuti e mi sono dovuta caricare le valigie di Oris per tornare a casa mentre litigavo con Draco e lui litigava al telefono con qualcun altro, poteva assolutamente andare peggio. 

«Può sempre andare molto peggio», mi dice la voce di un tassista che mi carica a bordo scontrosa perché dopo essere uscita di casa un'ora prima e aver aspettato invano l'autobus, sono costretta a trovare una soluzione al volo per non perdermi uno spettacolo al Teatro Argentina. «Di questo passo avrai un karma di ferro», mi dice la voce di Oris quando l'ennesimo fanciullo quarantenne si offende perché non sono mansueta e placida come (come?) aveva immaginato, e inizia a intentare rappresaglie per farmi sentire in colpa. E poi litigo con un sacco di gente, sono nervosa, mi muovo talmente veloce che, per l'effetto Doppler, non si riesce nemmeno a capire quello che dico.
Eppure mi sembra di vederla la buona sorte, mi dico che è lì, che è nascosta dietro l'angolo, che prima o poi girerà verso di me: mi lecco un dito per capire dove tira il vento, salgo di corsa le scale dei miei nonni per dimostrarmi che visto che ho ancora il potere di non cadere non può succedermi niente, con le costruzioni magnetiche che Oris mi ha regalato qualche anno  fa edifico motivazioni e portoni da aprire. 
Sento che tutto andrà bene. 
Poi comincio a vomitare, tantissimo, di notte e poi anche di mattina, fino a che parlo con Ioris che mi obbliga ad andare al pronto soccorso e lì mi fanno due flebo e non ce la faccio nemmeno a stare dritta. E allora, solo a quel punto, mentre l'infermiera mi tratta male perché non mi sono chiusa da sola la flebo, riaffiora dentro di me una discussione avvenuta durante un pranzo domenicale del 1998. Io e Oris, in preda a qualche delirio adolescenziale, stiamo baccagliando con i nostri genitori e c'è La Romana che, a un certo punto, ci dice: «Aò, mi sembrate i miei figli che ogni volta che gli dico che qualcosa non va mi rispondono: "A ma', sempre a lamentatte. Ce potevamo droga' e nun ce drogamo. Accontentate, te poteva anna' peggio"» e poi tira un'arringa sul sacro diritto a lamentarsi, a borbottare, a fregarsene del karma, dei mantra e dei però. Anche se è caduta dalle scale, La Romana ha ragione. 
«Sei fortunata», mi dice la dottoressa: «non è un'intossicazione». E io penso: «In effetti poteva andare peggio, però pure così fa abbastanza schifo». Poi esco dal San Giovanni, salgo in macchina dei miei e abbiamo giusto il tempo di arrivare all'Eur prima che io vomiti di nuovo.

Quindi? Qual è il punto? È una fortuna o una sfortuna che La Romana sia caduta per le scale? Giocare di più con le bambole mi avrebbe fatto diventare meno prepotente? Io voglio davvero avere a che fare con tutti i pesci di cui è pieno è il mare? L'Atac è responsabile delle nostre sventure oppure, come dice Zadie Smith, siccome «chi gira ancora in autobus dopo i trent'anni può considerarsi un fallito» è tutta colpa mia? Quando Core e il fidanzato si sono lasciati e lui è sparito senza lasciare traccia, davvero «comunque non aveva scoreggiato»? Devo lasciarmi crescere i capelli? Perché Paperino non mi sta sul cazzo pure se quando parla non lo capisco? E se invece tutto dipendesse dal fatto che sto bevendo poco Estathè? 

«Senti, buona sorte, mi chiedevo. Ma non è che sei rimasta bloccata sul raccordo?», chiedo al termometro che segna 38.5, una sera di questo aprile, un giovedì nemmeno un pochino in odore di santità.
«Aò, sempre a lamentatte», risponde la voce de La Romana, non interpellata. «Co 'sto scherzetto hai perso tre chili, mo te manca un bell'esaurimento nervoso e sei pronta per la prova costume. Daje forte».
E allora capisco che ho sempre sbagliato il punto di vista e che se uno deve vedere quello che non c'è non possono esserci mezze misure e quindi le rispondo: «Ma infatti, oh: che culo. NON POTEVA PROPRIO ANDARMI MEGLIO©». D'altra parte, è esattamente quello che mi ha insegnato il mio bisnonno: quando le cose non le capisci, basta dargli un soprannome, trovare un modo per accettarle, un punto per tenertele vicine pure se sembrano così irrimediabilmente controverse.
Mica ci sarà un limite ai bicchieri di NON POTHÈVA PROPRIO ANDARMI MEGLIO©, no?

venerdì 3 febbraio 2017

Thè rehab

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Sto aspettando il treno per tornare a Roma: ho una valigia, uno zaino con il computer, una borsa con due pentole in vetro borosilicato temperato (volgarmente detto pyrex) e nemmeno una goccia di Estathè in corpo. Nelle ultime due settimane, sono stata davanti a un camino a leggere, a guardare serie TV e a riflettere sul perché in trentadue anni di vita non mi sono mai preoccupata di ascoltare il mio corpo.
Eppure, non ho fatto altro che ascoltare tutti gli stronzi che ho incontrato, la gente più assurda ha avuto voce in capitolo sui miei affari: solo il mio corpo non ha potuto dire una parola, non è mai stato interpellato e, anche quando ha cercato di imporsi portando la sua condizione al limite, più che essere ascoltato è stato gestito, sistemato al fine di farlo tornare zitto e al suo posto.
«Infatti, non sai quanto mi stai sul cazzo», mi ha detto dopo qualche giorno davanti al camino, mentre, abbracciati a Netflix, recuperavamo la prima serie di The OA; il mio corpo si è accartocciato sul divano quando Prairie insegnava i cinque movimenti e mi ha detto: «Quanto mi stai sul cazzo, Iris. Non sai quanto».

Non mi ero mai accorta che il mio corpo fosse così arrabbiato con me: lo nutro, lo assecondo, cammino tantissimo, ho comprato una bicicletta ellittica e la uso davvero, mangio decentemente e gli dono tutto l'Estathè di cui ha bisogno. Cosa dovrei fare di più? Dovrei usare la quinoa e il topinambur? Dovrei preoccuparmi dei rush cutanei, dei cibi che non digerisco, dell'insonnia, del perenne stato di ansia in cui mi trovo, dei dolori, dell'iperattività e delle posizioni in cui mi costringo a stare quando scrivo?
«Perché ti devi mettere così tanto in mezzo? Che cosa vuoi da me?», ho ripetuto al mio corpo negli ultimi mesi, dopo essermi accorta che aveva deciso di esacerbare la lotta, preparando le munizioni e caricando i fucili. Siccome le mie domande erano – e sono sempre state – retoriche, non mi sono interessata a nessuna risposta, ho lasciato sedimentare il litigio in un soliloquio e, solo quando la situazione è diventata ingestibile, ho fatto come faccio sempre, cioè: ho preparato i bagagli e sono andata a sistemarmi davanti al camino dei miei genitori, in rehab, a leggere, a guardare serie TV e a riflettere.

Oltre al resto, da quel punto dell'universo, ho anche facile accesso a Penelope, una dottoressa che mi ha visto crescere – in quanto madre di una delle più care amiche della mia infanzia – e che, oltre ad essere un bravissimo medico, ha anche un animo artistico molto interessante che rende i nostri incontri bizzarri e bellissimi (tra ritratti, tessuti, puzzle, uncinetti e problemi sui parallelogrammi).
Quando sono andata a trovarla per spiegarle della mia lotta intestina, Penelope stava creando un centrotavola e, con le mie analisi in una mano e dell'alloro nell'altra, mi ha detto una cosa che mi ha lasciato attonita. È da tempo che mi interrogo sulla pre-biografia, che, a differenza di fiction, non fiction, autoficton e autobiografia, è una forma narrativa che le pagine che scrivi assumono tuo malgrado: accade che, per uno strano meccanismo, quello che racconti inizia ad avere un'influenza su quello che ti succede. Il sospetto mi era già venuto in diverse occasioni: per esempio, quando mi si sono rotte le perle nello stesso identico modo in cui l'avevo scritto qualche anno prima, oppure quando dopo aver parlato ossessivamente di valvole di ritegno nel mio primo romanzo, la valvola che connette il mio esofago con lo stomaco ha smesso di funzionare bene; ma quando Penelope, sistemando delle candele rosse, ha sentenziato: «Iris, il tuo corpo sta cercando di dirti qualcosa e io credo che questa cosa abbia a che fare con il Nichel», ho capito che non era un sospetto: la pre-biografia esiste e, per quanto mi riguarda, funziona grazie al fatto che, a differenza mia, il mio corpo mi ascolta moltissimo: poi prende quelle informazioni e le usa contro di me.

D'altra parte, in questo caso, era davvero facile: la mia mania per la tavola periodica, le mie recensioni musicali chimico-letterarie, il fatto che la protagonista del romanzo che sto scrivendo si chiama Nicla ma sua nonna la chiama Nìchela come se fosse fatta di Nichel... Non ci voleva un genio per farmi sentire colpevole nei confronti di me stessa. Perché il punto è che la mia pre-biografia non ha a che fare con la preveggenza, con dei tentativi inconsci di dominare il futuro o con qualcosa di magico, no: ha a che fare con quel termometro che misura la mia vita e che si è bloccato su delle temperature che oscillano solo tra il grottesco e la presa per il culo – ecco, una cosa tipo la prestigilibiridirizzazione di Raul Cremona quando imitava Silvan.
E così, mentre pensavo: «Nichel – simbolo dell'elemento: Ni; numero atomico: 28; serie: metalli di transizione», Penelope mi ha spiegato quanti cibi non posso mangiare, dove devo cucinare, in che modo devono essere conservate le cose che compro; ha stilato una lista, ma io riuscivo a pensare solo: «Estathè, Estathè, Estathè» perché lo so che, in questi casi, il mio amico chimicone è sempre il primo a saltare. Siccome, oltre a questo, Penelope mi faceva domande del tipo: «Da dove lo prendi di solito il Calcio?» – alle quali, chiaramente non potevo rispondere: «Estathè» –, mi sono intristita parecchio, talmente tanto da pensare di non sapere niente di niente e di non essermi mai veramente impegnata a capire di che materia sono fatta e in che quantità, e di cosa ho oppure non ho bisogno.
Magari, aveva ragione quel tipo che, durante una cena, aveva segnato con le braccia il contorno di tutto il nostro tavolo e mi aveva detto: «Vedi, Iris: questa è la tua testa» e, poi, lasciando mezzo centimetro tra l'indice e il pollice, aveva aggiunto: «Questo, invece, è il tuo corpo. Capisci qual è il tuo problema, secondo me?».

Il primo giorno di rehab è stato durissimo.
«Hai assorbito troppo stress, troppe cose che scrivo, troppa gente, troppo Nichel», ho detto al mio corpo quando siamo tornati davanti al camino di casa dei miei genitori: «Ora ci dobbiamo disintossicare».
«Vaffanculo, brutta testa di cazzo», mi ha risposto lui ed è stata la prima cosa che mi ha detto in assoluto, non appena ha avuto la possibilità di essere ascoltato.
«Iniziamo benissimo...».
«Sai che ti dico? Ha ragione Draco Malfoy! Tu sei gentile con tutti, pure con i truffatori dei call-center, pure con quelli che ti dicono che hai la testa grossa come il tavolo di un ristorante. Ascolti tutti: nel corso degli anni, hai permesso a cani e porci di essere la tua voce fuoricampo. Hai fatto la stronza solo con me...».
«Innanzitutto: Draco Malfoy non ha mai ragione, nemmeno quando ha ragione. E poi: ho capito che ti devo ascoltare, ma siamo sicuri che sono queste le cose che mi devi dire?».
Dopo 20 ore senza Estathè, mia madre ha iniziato a preoccuparsi: ero buttata sul divano, scontrosa, con le ossa a pezzi e il mal di testa. Me la sono vista comparire davanti con un brick, tipo oasi nel deserto: «Bevi, tossica. Stai così perché sei in astinenza».
Ci ho messo un po' ad abituarmi – ma se qualcuno mi deve chiamare, consiglio di farlo dopo le cinque: alle cinque, bevo il mio primo e unico Estathè della giornata, quindi da quel momento in poi sono felice e mansueta.

Ora sto tornando a Roma. Dopo due settimane di camino, divano, libri, serie TV, riflessioni e chiacchierate con le amiche di mia madre (un gruppo di sostegno di cui mi nutro in rehab e che, saputa la storia del Nichel, mi ha subito fornito le pentole in pyrex che devo usare per cucinare), sto aspettando il treno per tornare alla normalità. Mi sembra uno di quei momenti che sono metafora, sineddoche, parallelogramma, centrotavola di una vita intera, se non fosse che...
«Porca troia che palle: io sto carico di roba e tu fino a che non arrivano le cinque non sei per niente felice né mansueta».
«Senti, corpo: non c'è bisogno di parlare in continuazione...».
«Ma noi siamo sicuri che 'sta rehab è finita? Finita finita?».
«No che non è finita. Qua nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma, si deforma, ci intossica e rompe le scatole...».
«Le scatole? Ha ragione Giaris quando ti dice che non ti sfogherai mai se continui con 'sto politically correct. Ti faccio un esempio: lo vedi questo treno? Ecco, Iris, questo treno è la tua testa. Invece lo vedi questo dito medio, ecco questo dito medio è per andartene affanculo».

Nichel, ma tu sei sicuro che vuoi stare qua dentro?
Esci, Nichel, ti prego: esci da questo corpo.