Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

martedì 18 aprile 2017

Guida per riconoscere la buona sorthè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Il fratello di mio nonno ha sposato una ragazza di Roma che il mio bisnonno chiamava La Romana: darle un soprannome era il suo modo di cercare di accettarla, trovare un punto per tenersela vicina pure se era diversa. Da piccola stavo sempre con lui a casa dei miei nonni e, quando mia nonna mi urlava di stare attenta, che potevo cadere perché per fare le scale pericolosissime di casa loro correvo come una forsennata, lui, serafico, sbuffava fuori il fumo di quelle sigarette di sterpaglie che gli piaceva rollarsi e sentenziava: «Solo La Romana è caduta da quelle scale...» come a dire che siccome era successo a lei, a me non poteva succedere. «Che fortuna», pensavo io.
Un giorno La Romana mi ha chiesto se mi piacevano davvero le bambole e io ho accennato un no con la testa, non ho avuto il coraggio di dirlo con la voce che le bambole non mi piacevano perché piacevano a tutte le bambine e io non volevo sentirmi diversa, ma siccome La Romana era diversa, quel giorno le ho detto la verità. Allora lei, quando è tornata a trovarci, ha portato a Oris una bambola e a me una confezione di Lego; io ero felice da fare schifo ma quando Oris, arricciando i boccoli della sua bambola e guardando con distacco le mie costruzioni, mi ha detto: «Mi spiace per te. A nessuna delle mie amiche è mai successa una cosa del genere...», «Eh già», le ho risposto: «Che sfortuna». 

Per tutta la vita, anche quando diventiamo grandi, facciamo un sacco di confusione tra la fortuna e la sfortuna: vediamo forme di immunità dove ci sono solo una serie di casi favorevoli, paragoniamo la nostra vita a una slapstick comedy ogni volta che inciampiamo nel tappeto del salotto, confondiamo i Paperini con i Paperoga e i Paperoga con i Gastoni, piangiamo con disperazione su un amore andato (a) male per poi dire che tra le persone che ci hanno salvato la vita c'è Chewbecca, per quella volta che ci ha lasciati via mail. Buona e cattiva sorte sono una specie di gnommero gaddiano, impossibile da districare. 
Un po' quello che mi succede con il percorso mentale di accettazione o rifiuto della mia dipendenza dall'Estathé: io penso che l'Estathè mi faccia bene, ma do retta alla mia dottoressa Penelope e ne bevo solo un bicchiere al giorno; poi, però, anche se so che ne dovrei bere solo un bicchiere al giorno, certe volte ne bevo due perché è stata una brutta giornata e «Me lo merito», quindi mi sento in colpa perché pare che faccia male, ma secondo me fa bene e poi di nuovo da capo. Insomma,  è complicato.
Per questo, durante gli anni, ho cercato di trovare delle perle di saggezza a cui appigliarmi, delle frasi, anche fatte, da incanalare in un flusso di ottimismo che mi potesse portare ad essere ben disposta verso le negatività, le sconfitte e certe incredibili sfighe, in modo da poterle usare come mantra e imparare a riconoscere la buona sorte ovunque, trovarla anche quando si nasconde per bene.

Tra i vari «Sì, vabbè, allora beati i minatori», «Dai che così stai accumulando punti karma» e ai «Comunque il mare è pieno di pesci», in mezzo ai bicchieri mezzi vuoti e mezzi pieni, e ai «Chiusa una porta si apre un portone», per me, ha sempre spiccato il POTEVA ANDARE PEGGIO©, un grande classico, mutuato negli anni di bocca in bocca, da Igor in Frankenstein Junior nella scena del cimitero a Core nei pomeriggi peggiori delle nostre vite, da il signor Rezzonico ne Gli Svizzeri di Aldo, Giovanni e Giacomo a mia madre di fronte ad ogni drammatico taglio di capelli che mi è toccato di avere. 
«Poteva andare peggio: può sempre andare molto peggio», mi dice una voce diversa, ogni volta. E io ogni volta mi incazzo perché penso che la voce ha ragione, che hanno tutti ragione, e che uno deve imparare a non lamentarsi di niente perché ogni cosa è comunque il male minore di qualcos'altro e mi ricordo perfino di un fidanzato di Core che, quando lei lo rimproverava, rispondeva: «Vabbè, però mica ho scoreggiato...», tipo a dire che quello era il limite massimo dell'orrore e che qualunque evento al di sotto di quella soglia era perdonabile, giustificabile, un'incontrovertibile buona sorte. 
Quando succede qualcosa, inizio a ripetermi il mantra, mi dico che anche se Oris e Draco Malfoy mi hanno fatto perdere il treno di andata, anche se quando siamo arrivati a casa dei miei il mio vicino è stato punto da un'ape sul collo e ci si è accasciato davanti agli occhi, poteva andare peggio. Mi dico che anche se Draco ha promesso a mio padre che avremmo preso il porto d'armi e ha spaventato mia nonna dicendo che Oris pesa come una bambina delle elementari senza merendina in tasca, anche se sono caduta mentre cercavo di prendere dei cetriolini sottaceto e Draco si è ferito sbattendo la testa al sottoscala, poteva di certo andare peggio. Mi dico che anche se la mia imboscata di sei donne contro Draco non ha funzionato e lui non solo ha resistito ma è anche risultato insensatamente simpatico, anche se il treno di ritorno ha portato un ritardo di 75 minuti e mi sono dovuta caricare le valigie di Oris per tornare a casa mentre litigavo con Draco e lui litigava al telefono con qualcun altro, poteva assolutamente andare peggio. 

«Può sempre andare molto peggio», mi dice la voce di un tassista che mi carica a bordo scontrosa perché dopo essere uscita di casa un'ora prima e aver aspettato invano l'autobus, sono costretta a trovare una soluzione al volo per non perdermi uno spettacolo al Teatro Argentina. «Di questo passo avrai un karma di ferro», mi dice la voce di Oris quando l'ennesimo fanciullo quarantenne si offende perché non sono mansueta e placida come (come?) aveva immaginato, e inizia a intentare rappresaglie per farmi sentire in colpa. E poi litigo con un sacco di gente, sono nervosa, mi muovo talmente veloce che, per l'effetto Doppler, non si riesce nemmeno a capire quello che dico.
Eppure mi sembra di vederla la buona sorte, mi dico che è lì, che è nascosta dietro l'angolo, che prima o poi girerà verso di me: mi lecco un dito per capire dove tira il vento, salgo di corsa le scale dei miei nonni per dimostrarmi che visto che ho ancora il potere di non cadere non può succedermi niente, con le costruzioni magnetiche che Oris mi ha regalato qualche anno  fa edifico motivazioni e portoni da aprire. 
Sento che tutto andrà bene. 
Poi comincio a vomitare, tantissimo, di notte e poi anche di mattina, fino a che parlo con Ioris che mi obbliga ad andare al pronto soccorso e lì mi fanno due flebo e non ce la faccio nemmeno a stare dritta. E allora, solo a quel punto, mentre l'infermiera mi tratta male perché non mi sono chiusa da sola la flebo, riaffiora dentro di me una discussione avvenuta durante un pranzo domenicale del 1998. Io e Oris, in preda a qualche delirio adolescenziale, stiamo baccagliando con i nostri genitori e c'è La Romana che, a un certo punto, ci dice: «Aò, mi sembrate i miei figli che ogni volta che gli dico che qualcosa non va mi rispondono: "A ma', sempre a lamentatte. Ce potevamo droga' e nun ce drogamo. Accontentate, te poteva anna' peggio"» e poi tira un'arringa sul sacro diritto a lamentarsi, a borbottare, a fregarsene del karma, dei mantra e dei però. Anche se è caduta dalle scale, La Romana ha ragione. 
«Sei fortunata», mi dice la dottoressa: «non è un'intossicazione». E io penso: «In effetti poteva andare peggio, però pure così fa abbastanza schifo». Poi esco dal San Giovanni, salgo in macchina dei miei e abbiamo giusto il tempo di arrivare all'Eur prima che io vomiti di nuovo.

Quindi? Qual è il punto? È una fortuna o una sfortuna che La Romana sia caduta per le scale? Giocare di più con le bambole mi avrebbe fatto diventare meno prepotente? Io voglio davvero avere a che fare con tutti i pesci di cui è pieno è il mare? L'Atac è responsabile delle nostre sventure oppure, come dice Zadie Smith, siccome «chi gira ancora in autobus dopo i trent'anni può considerarsi un fallito» è tutta colpa mia? Quando Core e il fidanzato si sono lasciati e lui è sparito senza lasciare traccia, davvero «comunque non aveva scoreggiato»? Devo lasciarmi crescere i capelli? Perché Paperino non mi sta sul cazzo pure se quando parla non lo capisco? E se invece tutto dipendesse dal fatto che sto bevendo poco Estathè? 

«Senti, buona sorte, mi chiedevo. Ma non è che sei rimasta bloccata sul raccordo?», chiedo al termometro che segna 38.5, una sera di questo aprile, un giovedì nemmeno un pochino in odore di santità.
«Aò, sempre a lamentatte», risponde la voce de La Romana, non interpellata. «Co 'sto scherzetto hai perso tre chili, mo te manca un bell'esaurimento nervoso e sei pronta per la prova costume. Daje forte».
E allora capisco che ho sempre sbagliato il punto di vista e che se uno deve vedere quello che non c'è non possono esserci mezze misure e quindi le rispondo: «Ma infatti, oh: che culo. NON POTEVA PROPRIO ANDARMI MEGLIO©». D'altra parte, è esattamente quello che mi ha insegnato il mio bisnonno: quando le cose non le capisci, basta dargli un soprannome, trovare un modo per accettarle, un punto per tenertele vicine pure se sembrano così irrimediabilmente controverse.
Mica ci sarà un limite ai bicchieri di NON POTHÈVA PROPRIO ANDARMI MEGLIO©, no?