Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

mercoledì 30 aprile 2014

Tinthèggiature

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

A stare tutti i giorni con te stesso, non ti accorgi che stai invecchiando, succede come nelle trasformazioni termodinamiche quasi statiche: ogni giorno il tuo corpo e la tua mente variano in maniera infinitesimale, così che il sistema te stesso, lo spazio che occupi e la superficie di controllo che ti divide dall'ambiente circostante sono in equilibrio in ogni istante e i cambiamenti non si notano.
Pensi di essere meravigliosamente perpetuo, di vivere in uno stato di eterna adolescenza. Pensi che la calvizie non esista, che esista solo gente che si rasa molto a fondo. Pensi che le taglie dei tuoi vestiti diminuiscano in maniera inversamente proporzionale al passare dei mesi e che il problema non è che stai ingrassando. Pensi che, se solo volessi, potresti correre una maratona: non lo fai perché le tute dell'adidas non sono più quelle di una volta. Pensi che se lasci i libri sulle mensole, le parole diventano più piccole, un po' sfocate, e che ti devi mettere gli occhiali perché la letteratura è indisponente non perché ti si sta abbassando la vista.

Pensi un sacco di cose sulla vecchiaia che (credi) non ti apparterrà mai, fino a che non arriva il momento della consapevolezza: la presa di coscienza dell'aumento dell'entropia dell'universo.
Può succedere perché un diciottenne che smanetta con l'iPhone davanti allo scaffale dell'Estathè dice alla sua amica: «Fai passare la signora» oppure perché ti rendi conto di accogliere l'ennesima notizia su una tua compagna di classe che si sposa o procrea senza il minimo stupore. Può succedere perché l'autobus che sballonzola sui sampietrini inizia a darti fastidio oppure perché la nuova regola è che se esci il venerdì, non esci il sabato e viceversa.
A me la consapevolezza di non essere più quella di una volta mi ha guardato attraverso la faccia contrariata della mia amica Giaris che si metteva il rossetto allo stesso specchio davanti al quale io stavo rovistando nella mia chioma per strappare un enorme e corpulento capello bianco, ispido e presuntuoso come un pelo della barba di Pezzetta.
Giaris mi ha guardato con molto dissenso.
«Quello è il filo di collegamento con la realtà irreversibile della tua trasformazione, se lo strappi te ne ricrescono tre. La vecchiaia non la puoi estirpare, ti si ripropone», mi ha detto.
«Sai che la tua voce sembra quella di cosa... come si chiama... quell'attrice... cavolo!»
«Vedi? Già questo è un reflusso di senilità...»

Quando Oris ha intravisto un possibile cedimento da parte mia riguardo alla politica della naturalezza, ha capito che era il momento giusto per convincermi a fare qualcosa ai miei capelli e non se l'è fatto sfuggire: mi ha sbattuto fuori casa senza aspettare nemmeno che finissi di staccare quella canuta e infida cordicella di sventura.
L'eterna giovinezza del sistema Oris non ha a che fare con la termodinamica, dipende da una serie di fattori che si possono riassumere in Giulia, la sua parrucchiera, e nella cadenza con la quale questa le rinfresca il colore sbarazzino dei suoi capelli.
«Quanti anni hai? Ne dimostri ventidue!», le dicono.
Oppure: «Ma non hai la patente perché non hai ancora l'età per prenderla, vero?».
O anche: «Ma Iris quanti lustri ha più di te?».

Sulla strada, mentre Oris mi portava a comprare una tinta per sfuggire dalla freccia del tempo che puntava dritta verso di me, una signora di almeno ottant'anni le ha urlato: «Oh madonna che bella bionda!» e a me è sembrato che la sua voce fosse la stessa di quell'attrice che prima si era impadronita di Giaris. E anche quando, dentro al negozio, Oris ha detto con sgarbo: «Fateci passare» a due bambini che si erano messi tra noi e la parete di tinte tra le quali avrei dovuto scegliere, mi è sembrato di sentire sempre lei, sempre la stessa voce.
«Non fate passare due signore?», ho chiesto io, visto che uno dei due bambini non si spostava. Lui ha allungato tutte e due le braccia e ha dato una spinta a Oris.
«Vedi? Il bambino mi riconosce come una sua pari», ha detto lei scuotendo con gioia la sua capigliatura florida.
A quel punto, ne ero certa, quella voce, quel tono, quel modo erano sempre gli stessi, appartenevano a colei che si si era interposta tra me e i video di Youtube per un sacco di tempo e che si era fatta odiare, infilandosi nel mio cervello con quel «Posso resistere a tutto tranne che a questi...»

Pensi di essere immune alle pubblicità delle creme antirughe o degli yogurt contro il colesterolo, pensi di non aver bisogno di quella roba da vecchi, che tu sei sempre uguale, che sei immortale, che sei al di sopra del bene e del male e la vita, invece, ti sbugiarda. La vita ti ripaga nell'ingiurioso momento in cui devi affrontare la caduta libera della tua volontà di fronte al bene necessario, facendo suonare il tempo a lei, a Violante Placido, che ti dice nell'orecchio: «...riflessi glossy glossy».
E allora tu ripeti: «Riflessi glossy glossy».
I momenti successivi sono avvolti nella nebbia: Oris che zompetta fuori dal negozio felice come una pasqua (dopo aver spintonato moralmente i bambini con il suo potere d'acquisto), io con la testa dentro la vasca che spurgo nero ebano come se piovesse, un bicchiere di Estathè che mi guarda dalle mani di Pezzetta e io che lo rifiuto e poi la voce di Giaris, quella vera, che mi dice: «Ammazza quanto sei glossy glossy!».

«Secondo me, sono venuta troppo scura...», ho detto a Oris, alla fine di tutto.
«Beviti il bicchiere di Estathè e non fare la prosopopea su questa tinta, che tra l'altro ti dura solo 28 shampoo perché è senza ammoniaca. Non conservare questo momento nella memoria come se fosse l'inizio del resto della tua vita. Non essere pesante. Questa va via quando va via, non è che ti viene la ricrescita. Solo l'ammoniaca è per sempre...», mi ha risposto lei.

Tinte De Beers, spero che non mi avrete mai.

martedì 15 aprile 2014

Thèlefonia (che ti) fissa

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

C'è sempre un momento, nelle riunioni delle comitive di oggi: in fila a prendere l'ennesimo Negroni o intorno a un tavolo dopo aver mangiato anche le posate, durante un happening artigianale al pubbetto sotto casa oppure in macchina, fermi al semaforo, ad aspettare il verde; c'è sempre un momento in cui gli occhi di uno si alzano a scrutare gli altri, lo sguardo di un impavido si staglia oltre i pixel del proprio telefono, oltre lo status Facebook che ha appena scritto ma che non ha avuto nemmeno un mi piace, oltre whatsapp e quell'altra applicazione che ti dice quanti sampietrini mancano per arrivare dove devi arrivare. Tutti gli altri guardano il loro smartphone, ridono, si incazzano, rispondono a qualcuno, mentre lui, in poppa, su quella nave che ha attraversato i decenni dal Commodore 64 ai Google Glass, lui guarda oltre, verso il futuro, verso quel modo di vivere che è talmente lontano che sembra dover ancora arrivare. Vede uno spicchio di terra all'orizzonte, vede una ragazza in bici, sente un profumo di fiori e, per non essere l'unico detentore di quelle meraviglie, lo dice: «Oh, per colpa di questi telefonini, non viviamo più nella realtà. Ma ve lo ricordate quando c'avevamo solo il telefono fisso? Quando dovevamo telefonare a casa delle persone e dire Pronto, casa Nintendo? Per dire: sono SuperMario vorrei parlare con la principessa del Regno dei Funghi...»

All'inizio nessuno lo ascolta, pensano stia lasciando un messaggio vocale o parlando con Siri, ma non appena anche gli altri capiscono che si tratta di nostalgia, mollano il telefono e cominciano a parlare di riviste di musica, del vecchio packaging dell'Estathè, dei cartoni animati, di quando arrivava l'amico di qualcuno e ti faceva la richiesta.
«Piaci all'amico mio, volevo sapere se ti ci vuoi fidanzare»
«L'amico tuo? Ma chi è l'amico tuo? E pure a te, ma chi ti conosce...»
Per un attimo, tutti quelli della comitiva, prima di afferrare i Negroni, prima di prendere un Brioschi, prima di uscire dal pubbetto e prima di sentire i clacson di quelli delle macchine dietro che li invitano, insieme a li mejo mortacci loro, a vedere che è scattato il verde: tutti provano un forte senso di nostalgia.
Dura un minuto, giusto un minuto di silenzio, poi è tutto come prima, perché la voglia di ritornare al passato è solo un trucco. Nessuno di noi vorrebbe veramente tornare indietro, nessuno di noi riesce a immaginare una vita in cui non si può stalkerare la gente su Facebook, Twitter, Instagram, Tumblr, Pinterest, Linkedln.
Pure su Linkedln? Pure su Linkedln.
L'altro giorno, un mio amico mi ha detto: «Il colloquio numero 7 è andato molto male» e si riferiva a una ragazza con cui era uscito: credo fortemente che l'avesse trovata su Linkedln.

La donna è mobile, il telefono è mobile, l'Estathè sta dentro a un mobile. Insomma, c'è una certa conformità nella frivolezza della nostra esistenza: io, Oris e Pezzetta abbiamo cercato di combatterla, prendendoci un telefono fisso.
Lui sta lì e ci guarda, in un vestito rosso cordless. Il numero non ce l'ha tanta gente, giusto mia madre, la madre di Pezzetta e i miei nonni eppure lui squilla, altroché se squilla.
La gran parte delle volte sono call center che cercano di farci cambiare compagnia telefonica, compagnia del gas, qualsiasi tipo di compagnia, pure quella degli amici e, altre volte, sono persone che cercano Roberto Goffredo, l'uomo di cui abbiamo ereditato il numero, di cui conosciamo l'indirizzo e alcuni parenti, visto che, prima del suo matrimonio, non hanno fatto altro che chiamarci zie che avevano perso la partecipazione, cugini con la tosse o amici privi della cognizione della sera tardi, della mattina presto e del concetto di insistenza.

È così che arriviamo a domenica mattina, quando, alle otto in punto, il telefono fisso ha iniziato a squillare e io, che sono nella stanza più lontana di tutte dal salotto, mi sono svegliata, sono scattata in piedi e ho iniziato a correre. Ma, tra me e quel telefono, tra me e il mio bicchiere di Estathè mattutino, tra me e il mio immotivato senso di responsabilità per ogni voce che mi attende dall'altra parte della cornetta, c'era uno stendino.
«Ma ve lo ricordate quando usavamo lo stendino? Quando dovevamo appendere i vestiti per farli asciugare?», ci diremo un giorno, quando i telefonini faranno anche da essiccatori di abiti.
Domenica mattina, in questo tempo ancora imperfetto, nella corsa disperata verso la base del cordless, io mi sono buttata sullo stendino. Avendo giocato a calcio, so come cadere per farmi il meno male possibile, quindi mi sono protetta con il braccio sinistro e ho sbattuto quello. Il dolore non ha fermato gli squilli del telefono, quindi, stoica, mi sono rialzata e sono andata a rispondere, con un livido che iniziava a diventare verde, appena in tempo per sentire un lungo: «Tuuu... Tuuu...».

«Tuuu, Iris Versicolor, sei la classica persona che dice sempre Ma vi ricordate quando giocavamo a pallone davanti casa? e poi passi il tuo tempo attaccata al computer. Tuuu hai una rubrica scritta a mano, non hai mai comprato niente su eBay e non sei iscritta alla newsletter di Groupon, quando Oris ti ha regalato il tuo primo smartphone le hai detto Mi hai rovinato la vita! e adesso hai un programma che gestisce le tue mestruazioni. Tuuu non hai un Kindle, non hai un Mac, hai rotto il tuo lettore mp3 e non l'hai ricomprato, ma poi hai fatto un funerale laico per Windows 7 quando sei stata obbligata a interagire con l'8. Tuuu sei una nostalgica contraddittoria. Tuuu te lo meriti quello stendino. Tuuu te lo sei guadagnato quel livido. Tuuu... Tuuu...»

Sul livido, ho messo un brick di Estathè ghiacciato, ma non è servito.
Allora ho preso il mio smartphone e l'ho fissato fino a che non si è svegliata Oris, che non aveva sentito né me, né lo stendino, né il telefono che squillava.
«Mi fa malissimo», le ho detto.
«Te lo devi tenere, Iris. Non puoi mica tornare indietro nel futuro!», mi ha risposto.

Grande Giove, lo so che eri tu al telefono, che volevi offrirmi del plutonio e un flusso canalizzatore. Richiama, ti prego.  

giovedì 3 aprile 2014

Conthèggi

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Una settimana fa, finalmente, è arrivato il corriere: dopo quasi otto mesi dalla consegna della raccolta punti, un intermezzo con un finto recapito e una mia lettera piena d'indignazione alla Ferrero (lettera della quale sono molto orgogliosa, visto che conteneva la parola «vettore»), è arrivato il nostro tostafette, quello che disegna le N di Nutella sul pane. Io non ero a casa quando è stato consegnato, quindi Oris e Pezzetta hanno pensato bene di provarlo e di mandarmi una foto del loro bel lavoro: ovviamente, non avevano letto le istruzioni e a me è arrivato lo scatto di una fetta con un'ustione di quarto grado intorno a una N minuscola, spalmata di una patina semitrasparente che ho immaginato essere Foille.

«Facciamo un breve conteggio», ha detto la voce del doppiatore di Russell Crowe, direttamente dalla N (che ho capito essere lì per interpretare John Nash).
«Vogliamo calcolare quanti minuti ci metterà Oris a far svampare il tostafette?»
«Non esattamente. Seguimi. I punti necessari per vincere il tuo premio erano 140; una trentina li avete ottenuti da insulse merendine e gli altri 110 dall'Estathè; calcolando che ogni bottiglia di Estathè valeva mezzo punto, ne otteniamo che, nei (circa) 10 mesi di raccolta, hai bevuto [110x2x1,5litri] 330 litri di Estathè. Ti pare normale?»
«Gradirei tu non spargessi la voce in giro, John»
«Tranquilla, soffro di una forma di schizofrenia, non mi crederebbe nessuno. A proposito di schizofrenia: per questa storia della voce fuoricampo, fatteli due conti...»
«Dici che sono A beautiful mind
«No, direi proprio di no»

La sicurezza con cui il doppiatore di Russell Crowe mi ha sbattuto in faccia che non sono un genio matematico mi ha molto indispettito. Ma, alla fine: come ti permetti, sottotitolo vivente?

Per rifarmi, ho pensato di dare il mio meglio durante una passeggiata con Oris.
«Iris, potresti camminare più lentamente?»
«La questione non è camminare più lentamente»
«Ah, no? E qual è la questione? Che ti piace farmi arrivare nei posti con il fiatone, manco avessi fatto la maratona di New York e poi fossi tornata a Roma a nuoto?»
«No, la questione è la tua prepotenza. Facciamo un breve conteggio. Il vantaggio che ti sei presa nascendo ventitré mesi prima di me, ha fatto sì che io mi sia dovuta impegnare per aumentare il mio coefficiente angolare di crescita, in modo da intersecare la retta che rappresentava la proporzionalità lineare del tuo sviluppo e raggiungerti. Ma tu, furbescamente, hai bloccato la tua altezza e, dopo tutta la fatica, mi sono ritrovata a essere più alta, con un'ampiezza di passo maggiore, quindi, quando camminiamo, oltre a sentire il ticchettio delle tue scarpe fuori tempo, ti devo sempre aspettare, mi devo adeguare, devo rallentare. Non è giusto: sei prepotente»
«Iris, di' la verità: hai di nuovo sognato che Sofja Kovalevskaja e Alan Turing non ti facevano giocare con loro?»
«Ecco un'altra questione: la tua insolenza. Tu sottovaluti sempre le mie esternazioni. Quando dobbiamo uscire, mi dici che sei quasi pronta e io mi incappotto e invece non hai ancora iniziato a pettinarti quella capigliatura da Barbie Raperonzolo che hai e, intanto che rifinisci il trucco, il surriscaldamento globale mi fa sudare e butta me e il mio cappotto fuori da ogni stagione. Quando ti dico che mi devo alzare in piedi almeno una fermata prima di ogni mezzo di locomozione per essere tranquilla, tu mi distrai e mi fai alzare quando le porte si sono già aperte: poi succede, come è successo, che rimani incastrata con il borsone nelle porte del treno che sta per per ripartire e io ti devo tirare fuori con uno strattone e un calcio rotante per non farti portare via dal treno agganciata a una borsa...»
«Oddio, sì. Io non ho fatto altro che ridere, tu hai avuto un attacco d'ansia epico dopo che tutto era stato risolto!»
«Non voglio nemmeno immaginare cosa scoprirei se facessi un conto finale, un bilancio di tutti i minuti, le ore, i giorni che ti ho aspettato, le bottiglie che ti ho aperto, i passi che ho rallentato, le valigie che ti ho portato, le lavatrici che ho fatto, le grucce che ho appeso, i capelli che ho raccolto, le risse che ti ho evitato...»
«... e le cose che mi hai rinfacciato»
«Queste sono definizioni, assiomi, dimostrazioni: è matematica. E' Russell Crowe che interpreta Massimo Decimo Meridio, Oris! Numeri, al mio segnale, scatenate l'inferno!»

La teoria dei giochi cerca di risolvere le situazioni di conflitto tramite modelli. L'equilibrio di Nash è una combinazione di strategie tale che ogni giocatore sceglie in base alla massimizzazione del proprio profitto che, per essere sicura, deve accadere indipendentemente dalle scelte degli altri.
La strategia di bere 330 litri di Estathè ha consentito che noi avessimo in regalo il tostafette.
La massimizzazione del profitto, però, ha anche implicato che Oris e Pezzetta, giornalmente, abbiano dovuto combattere con la mia iperattività e le mie overdose di zuccheri.
Il fatto che Oris e Pezzetta brucino le fette tostate, mi prendano in giro, approfittino dell'inesauribilità della mia energia cinetica e rallentino la mia vita con i loro tempi biblici comporta che, in un qualche modo, ogni giorno, quasi sempre, vinciamo tutti.

Certo, Oris vince più degli altri, ma quella è un'altra storia, un problema che nessun premio Nobel potrà mai risolvere.

«Alan, John, Sofja e anche tu, doppiatore di Russell Crowe, vi prego, ogni tanto, fatela giocare con voi!»