Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

venerdì 10 aprile 2015

Parthènze

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Ogni tanto, di fronte a una notizia, a un turbamento emotivo, a una girandola di nostalgie, mi capita di ritrovarmi nella panda blu di mia madre, quella con cui portava me e Oris a scuola quando eravamo piccole. Un sentimento improvvisamente forte mi coglie di sorpresa ed eccomi con le braccia incrociate sul sedile posteriore della panda, a guardare fuori dal finestrino, dopo aver litigato con Oris su chi deve sedersi davanti (prima vinceva sempre lei perché era più alta e comandava, ora sono passati gli anni, è più bassa, ma vince comunque). E allora sospiro di fatica, mia madre accende il motore e parte l'autoradio.
«Io ed i miei occhi scuri siamo diventati grandi insieme...», canta lui.
«Con l'anima smaniosa a chiedere di un posto che non c'è...», rispondiamo noi in coro.
Come tutti, anche io so a memoria le canzoni di Baglioni senza aver mai comprato un suo disco e lui, Claudione, mi colpisce sempre quando meno me lo aspetto, con sferzate di autotreni, telline, mezzerie, straccivendoli, agrifogli, asfalti acquosi, ringhiere, aerei supersonici e legnetti di cremini da succhiare.
Tra le cose di cui più mi vergogno al mondo, c'è la faccia sconvolta di Pezzetta quando, alla fine della mia storia con Chewbecca, mi ha trovato abbracciata al poggiatesta del sedile passeggero, a tenere il tempo di una musicassetta.
«Io ti baciavo mentre tu piangevi... Vai, Iris, ora tocca a te», mi istigava Baglioni.
«... ma adesso che io piango tu chi bacerai?», gli urlavo dietro io, con la voce spiegata -e stonata.

Qualche settimana fa, mi ha telefonato Core da Bruxelles: avevamo parlato a lungo della possibilità di un suo nuovo trasferimento e io sapevo che, in quella telefonata, avrei avuto la risposta definitiva alle mie -e alle sue- domande: la decisione finale.
Ho lasciato squillare il telefono per un po' perché, prima di rispondere, mi sono versata un bicchiere d'Estathè e mi sono dedicata a un breve amarcord.

Previously on Via Nardini, 29
Prima che Papa Luciani la rapisse e la portasse in Belgio (sì, Giovanni Paolo I non è morto, si occupa di economia e vive a Bruxelles), Core abitava sul mio stesso pianerottolo, mangiava alla mia stessa tavola, insultava i miei vestiti e il modo che avevo di truccarmi e non usciva mai con me: erano questi i capisaldi della nostra amicizia.
La mattina, mentre lei era al lavoro, io andavo a passeggio con India e Sophie, la sua labrador e la sua levriera italiana, le mie amate nipotine nere come la notte, e la sera lei insisteva a pagarmi: «Sei la loro dogsitter», mi diceva: «Io non credo nell'amicizia».
«E lei, lei mi guardava con sospetto, poi mi sorrideva...»
«No, Claudio, questo non è uno di quei momenti. Non interrompere!»
Dicevo che Papa Luciani, a un certo punto del suo pontificato, si è caricato Core, India e Sophie sopra a una furgone e, dopo 34 ore nette di viaggio, le ha stanziate a Bruxelles.
«Avrai avrai avrai il tuo tempo per andar lontano, camminerai dimenticando, ti fermerai sognando!», urlavamo io e Oris dalla panda blu di mia madre, durante quell'addio (purtroppo quell'automobile fa sempre gli stessi 5 chilometri di giro per portarci a scuola, quindi non si è potuta lanciare all'inseguimento del furgone del Papa verso il Belgio).
Fine dell'amarcord

Quando mi è arrivata la telefonata di Core, qualche settimana fa, eravamo a due anni di distanza da quella partenza.
«Senti freddo anche tu, senti freddo anche tu: perché stai a Bruxelles...», ha detto lui.
«Oh, Baglioni, non ti prendere tutte 'ste libertà, però. Le rivisitazioni non le accetto. E poi cerca di attenerti alla mia ritmica emotiva, non entrare fuori tempo...»
«Aò, nun me di' che sto fòri tempo che te lancio dietro uno de 'sti zigomi. Guarda che fanno male, eh...»

«Iris: è deciso. Ci trasferiamo a Washington...», mi ha detto Core e io ho pensato: Washington, fuso orario, Oceano Atlantico, «Ma dove cazzo le porti 'ste cagnoline che stavano tanto bene a Roma e mai avrebbero immaginato nella vita di diventare delle migranti?», nostalgia preventiva, «E adesso come faremo a sentirci?», paura, baratro, «Il tuo cervello, si sa, riesce a contenere solo due lingue: hai dovuto rinunciare all'inglese per il francese e mo' devi rinunciare al francese per l'inglese», mania del controllo, «Come fai a trasferirti in un paese in cui non vendono Estathè?», panda blu, Baglioni che urla: «Chi viene a prenderti? Chi ti apre lo sportello? Chi segue ogni tuo passo? Chi ti telefona e ti domanda 'Tu come stai?'». E poi le ho dato la risposta vera, quella che tiri fuori la musicassetta dall'autoradio senza premere stop, incasini il nastro, interrompi un arabesco vocale di Baglioni, spingi il sedile del passeggero in avanti, schiacci Oris contro il parabrezza, apri lo sportello della macchina senza guardare, scendi e glielo dici: «Che bello, Core! Sono così felice per te!».
Quando ho riattaccato, però, sono rientrata in macchina e mi è venuto il magone.
«Un treno per l'America, senza fermate...» ha provato a dire Baglioni, ma non io non gli ho dato corda. «E quel disordine che tu hai lasciato nei miei fogli andando via così...», ha provato ancora. «Cosa mi è preso adesso? Forse mi scriverai, ma sì è lo stesso...». Baglioni mi cantava tutte le sue frasi migliori sull'abbandono, ma io non ce la facevo a seguirlo.
«Claudio...»
«Eh, dimmi»
«Ma a te nella vita ti hanno solo lasciato?»
«Senti, se non la smetti, trasloco nella Uno bianca di tuo nonno...»

Dopo quella telefonata, sono passate alcune settimane, sono partita e tornata un po' di volte per andare appresso al mio libro e, in una di queste partenze, mi sono ritrovata sul pianerottolo del quarto piano di Via Nardini 29.
Nessuna notizia, nessun sentimento forte mi ci avevano mai portato prima.
Mia madre e mia sorella avevano deciso di accompagnarmi, in quel viaggio in treno verso Torino, e, mentre mia sorella cercava un modo per mettersi sul sedile davanti («Oris, ma davanti a che?», le chiedeva mia madre) e io già mi prefiguravo tutte le discussioni surreali che avremmo avuto in trasferta (Oris che dice: «Iris, te lo giuro, quando ci hai lasciate da sole, mamma si è nascosta dietro una colonna...»; mia madre che le risponde: «È che non sai leggere le mappe sull'iPhone e mi stavi cercando con le indicazioni per il percorso in macchina...»), io mi sono ritrovata sul pianerottolo e Core mi ha detto: «È un mese che non scrivi sul tuo blog...».
«Sì, è perché Baglioni mi tiene sotto sequestro dentro la panda blu»
«Mmm... E adesso perché sei qui?»
«Credo sia per salutare te e papa Luciani, tifare per la vostra partenza...»

E allora siamo scese in strada, dove c'era la panda parcheggiata in doppia fila: Oris ha fatto salire Core con me sul sedile dietro, abbiamo sospirato di fatica e di gioia, mia madre ha acceso il motore ed è partita l'autoradio.
«Core, io e Oris per te siamo come le canzoni di Baglioni: ci sai a memoria pure se non ti sei comprata il disco. Non basta andare a Washington per liberarti di noi: non ti libererai mai di noi...»


P.S. Dopo questa affermazione, confido che Baglioni emigri nella Uno bianca di nonno Peppino. È solo per questo che ho scritto il post, non per amicizia. Tanto Core non ci crede nell'amicizia.