Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

martedì 13 maggio 2014

Via il denthè, dentro il dolore

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Il dolore per me ha una rappresentazione precisa: è il piede di porco che il 2 gennaio 2008 ha cominciato a spingere sul secondo premolare della mia arcata dentale destra inferiore. Dall'interno della gengiva, durante i miei ventiquattro anni di vita, un piccolo e fetente doppione aveva percorso la strada che lo divideva dal suo gemello e, quello specifico giorno, dopo i bagordi del Capodanno, si era messo a spingere sul nervo, deciso a sfondare Abele, manco fosse un Ca(n)ino qualunque.
Il dolore per me sono le tre di notte con Oris che cerca di non farmi sbattere la testa al muro, che mi butta in bocca grappa, camomilla bollente, Estathè ghiacciato, colluttorio, farina, sale iodato, gocce per gli occhi: qualsiasi cosa. Essendo, in pratica, allergica alla totalità degli antidolorifici, sono costretta ad arrangiarmi quando sto male.
È chiaro che il mio è un implacabile destino di sofferenza.
Ogni volta che faccio un controllo dal dentista, ripenso alla faccia del medico dopo la lastra, a questi denti uno sopra l'altro, a lui che mi dice: «Dobbiamo intervenire» e poi all'operazione. Ho tolto un pacifico e innocuo dentino per far posto a un cazzo di facinoroso, portando, per quattro mesi, un apparecchio con un tirante di ferro che pescava il dente di sotto direttamente da dentro la gengiva e lo portava su piano piano, in modo che facesse la strada giusta e che prendesse il posto dell'altro con cognizione di causa.
La soglia del mio dolore si è alzata in quei tempi duri di cibi morbidi, durante i quali io e il mio frullatore, che non amiamo né lo yogurt né il gelato, abbiamo prodotto omogeneizzati di ogni tipo, arrivando a tritare perfino pane e salame.
Il dolore per me era fisico e psicologico, come tutti i dolori peggiori.
Ma, oltre a questo, io parlavo come Sloth de I Goonies.

Siccome sono una donna, sono riuscita a sopportare tutta quell'indecenza con un pizzico di dignità. Non ne voglio fare una questione di genere, ma è noto che gli uomini hanno una soglia del dolore ridicola, infima, quasi inesistente.
Quando Pezzetta ha il raffreddore, io e Oris chiamiamo la divisione Grandi Eventi della Protezione Civile per dargli supporto.
«Sendo di avere la febbre»
«Pezzetta, il termometro dice che hai una temperatura di 36.7»
«Il terbobetro deve essere roddo», ci dice con gli occhi a fessura, mentre ciabatta ad accucciarsi verso un termosifone spento a ferragosto.
Io, invece, in quei terribili giorni in cui: «Almeno puoi bere l'Estathè» era il mantra di rassicurazione, me la sono cavata: il dolore era così potente da rendermi remissiva e la fame così forte da rendermi aggressiva, quindi alla fine mi sono normalizzata e, a quei mesi, gli ho perfino scucito un fidanzato.
«Come hai detto che ti chiami?»
«Irif Vevficolov, ma non avvò pev fempve quefta effe fevpentina»
«Sai che parli come Sloth de I Goonies?»
«Lo fo. E Orif e Peffetta poffono infilavti le dita nel mio fvullatore fe glielo chiedo, cavo Chunk...»
«Ah, The Fratellis!»
Più in là nel tempo, quando la storia sarebbe naufragata malissimo (nessuna storia che inizia con un dente che ne spazza via un altro può andare molto lontano), in un delirio da 37.2 di febbre, Pezzetta avrebbe commentato: «Cobudque, dod è vera la sdoria che De Fradellis haddo preso il dobe da I Goodies»

Il motivo per cui scrivo tutto questo è che, in questi giorni, Sloth è tornato nelle nostre vite, sotto altre spoglie: Oris lo indossa prima di andare a letto la sera e ci si sveglia la mattina.
«Digrigni i denti, è un problema», le ha detto il medico: «Devi metterti un bite».
«Ho i denti grassi, tozzi, più larghi che lunghi», gli ha risposto lei: «Questo è il vero problema». Ma ha vinto il medico e allora lei ha cominciato a soffrire.
Il dolore per Oris ha una rappresentazione precisa: è il gilet trapuntato verde che ha indossato per andare a Napoli durante una gita in seconda media. Aveva gli occhiali rotondi, un cappello con la visiera ed era un po' cicciottella (lei direbbe: «Grassa, tozza, più larga che lunga»). Dall'interno del nostro armadio, durante i nostri primi quindici anni di vita, nostra madre aveva sempre tirato fuori delle scempiaggini (erano gli anni ottanta e poi i novanta, forse non era tutta colpa sua), ma quella volta aveva davvero toccato il fondo: Oris non è mai più stata la stessa persona.
È stato un dolore estetico, cromatico, quasi morale, come i dolori peggiori.
Ma, almeno, ai tempi, non parlava come il fratello deforme de The Fratellis.

«Non riefco a immaginave una puniffione peggiove di quefta», ha detto la prima volta che ha indossato il bite: «Mi viene da vomitave».
«Doglidi quesdo bide che dod si capisce diende», ha risposto Pezzetta, starnutendo.

Non devo ancora sottolinearlo che il mio è un implacabile destino di sofferenza, vero?