Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi
tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi
una voce fuoricampo»
Certe
volte, mentre scrivo, riesco a stare, anche per tre quarti d'ora, con
entrambi i piedi sulla sedia, le gambe piegate ad altezza busto che
mi coprono la visuale della tastiera e le braccia sospese a mezza
luna, arrondies ma allongées, per far arrivare le mani
a battere sui tasti. Altre volte, al cinema, riesco a stare, anche
per tutta la visione del film (trailer compresi), con il culo sulla
punta della seduta, gli stinchi appoggiati sullo schienale della
poltrona davanti, i piedi sospesi e la schiena accartocciata a
parabola – per una migliore ricezione delle immagini. Di base,
praticamente sempre, tengo entrambe le spalle sollevate, tese verso
l'alto, quasi ad altezza orecchie, come se stessi perennemente in
posizione di rassegnazione, impossibilità, indifferenza: sempre in assetto Non
è gobba, è il mio guscio da Tartaruga Ninja.
Queste
sono solo alcune delle posizioni che assumo nella vita, sono solo
parte degli assestamenti corporei che alimentano la mia cifosi in
maniera insensata ma interessante. Creo nuovi spazi, nuove superfici
curve, coppe di sibilanti clavicole concave, muscolosissimi
recipienti di addominali obliqui, bottiglie con un collo del piede
anatomicamente perfetto. E poi riempio tutto di Estathè.
L'altra
sera, durante la cena, avevo la schiena molto dolorante e allora ho
provato a dire ad Oris: «Ehi, senti, ti ricordi quando...», ma lei
ha battuto forte le mani, Pezzetta si è bloccato con la testa nel
piatto e il Piccolo Coro dell'Antoniano si è sistemato dietro di
lei, pronto ad accompagnarla qualora fosse stato necessario.
«Mi
ricordo cosa, piccola recriminatrice? Tu quando parti all'indietro
sei pericolosa, nostalgica e lamentosa», mi ha risposto Oris,
minacciandomi con un dito verso il coro.
«Mi
chiedevo soltanto se ti ricordavi quando saltavamo con la corda e
roteavamo l'hula hoop. Volevo sapere se ti ricordavi quanto eravamo
agili e scattanti...»
Oris
mi ha guardata male, ha alzato le braccia al cielo e il Piccolo Coro
dell'Antoniano ha iniziato a vibrare: «C'era
un piccolo piccolo rospo, c'era un piccolo re. Cademisolfami
cademisolfami. Bim Bum Bam...»
Oris
fa così quando non mi vuole sentire, usa una metodologia
dissimulatrice musicale: una presa di posizione che le permette di
ammutolirmi usando una mimica drammatica ispirata a Mariele Ventre –
e riuscendo a sfruttare, nel contempo, le armonizzazioni di un
piccolo gruppo di bambini indifesi.
Pezzetta,
dopo quasi otto anni di convivenza con noi due, ha imparato a
riconoscere i momenti di esaltazione, li fiuta, li teme e li fugge,
imitando un comportamento animale che si chiama tanatosi: in
pratica, irrigidisce totalmente il corpo e si finge morto. Ma
stavolta, anche se, alla comparsa del Piccolo Coro dell'Antoniano, si
era bloccato con la testa nel piatto, Oris è riuscita a cogliere
un'alzata di sopracciglia di dissenso, in mezzo a quei capelli
lunghi, a quella barba folta e a quegli occhialoni enormi e gli ha
detto: «Che c'è? Non conosci questa filastrocca?». Poi ha alzato
un braccio e...
«Quattro
pirati nel Mar dei Sargassi hanno una zattera fatta di assi, vanno
remando dicono loro alla ricerca di un grande tesoro...».
Il
fatto che Pezzetta, dalla sua posizione di immobilità, non seguisse
le nostre mosse sulla filastrocca ci ha sconvolte, tanto che abbiamo
telefonato a sua sorella per sapere se era un caso unico o se
Benevento applicava un boicottaggio delle rime baciate nelle infanzie
di tutta la provincia.
Alla
notizia che Pezzetta era, come al solito, il nostro petalosissimo
caso unico, Oris è scattata in posizione Sono la regina di tutte
le coreografie del mondo e via. Via tra: «Pezzetta, sei troppo
lento, ci fai perdere il ritmo!» e «Io ho una zia, una zia che sta
a Forlì che quando va a ballare con il piede fa così, così,
così...», tra «La macchina del capo ha un buco nella gomma» e
salti, sventolii di braccia e cerchi di sei mani che battono uno
sull'altra, tra «Era una notte pioveva a catinelle, andavo in giro
senza le bretelle» e: «In piedi, Pezzetta, lo sappiamo che non sei
morto! Iris, fallo rinvenire con i sali di Estathè!».
A
fine seduta, io ero stremata, la schiena mi faceva sempre più male,
le spalle erano sempre più contratte e le gambe tese. Io non sono
brava come Oris, in queste cose: io arranco, mi muovo male, sbaglio i
passi e non ho cognizione del mio corpo (sono giorni che ho un livido
enorme su un fianco e non ho idea di come sia arrivato lì).
Due
settimane fa, a un pranzo di famiglia, dopo che avevo mangiato e
bevuto tantissimo, mio cugino sano, quello nutrizionista che mangia
bene, insegna basket, ha fatto una vita di pallanuoto e gioca nella
zona atletica della famiglia, ha preso me e Oris e, una per volta, ci
ha posizionate su una panca che aveva costruito per suo padre: uno
strumento di tortura a forma di V. Gambe e schiena sollevate dello
stesso angolo, salsicce e Barbera che mi sguazzavano nello stomaco e
lui che continuava a premere sul mio torace, dicendo: «Hai un pezzo
di legno, non hai un diaframma. Come ti senti? Che cosa mangi? E
quante volte al giorno? Sapresti elencarmi quali sono i
carboidrati?».
Io
guardavo Oris con disperazione, ma lei – che per una volta era
fornita di cellulare in una situazione al limite – continuava a
scattarmi foto e a ignorarmi, nella speranza che vomitassi sul tappeto della camera
da letto dei miei zii.
«Iris,
senti, io me lo ricordo quando saltavamo alla corda e roteavamo
l'hula hoop, ma Pezzetta te lo ha spiegato che non puoi fare sport
in casa: non puoi metterti a zompettare in salotto. Devi uscire,
dobbiamo uscire. Lo sai cosa sta per succedere...»
«No, noi non ci iscriveremo in palestra!», ho urlato senza forza, con le mani
a sostenermi la parte bassa della schiena. Oris ha ecumenicamente
allargato la braccia, mi ha guardato con gli occhi di sfida e il
Piccolo Coro dell'Antoniano ha intonato: «Ponte ponente ponte pì tappetà Perugia
ponte ponente ponte pì tappetà perì!».
Le
posizioni in cui riusciamo a metterci, nella vita, sono molto spesso
scomode, ineleganti, nocive: il tempo davanti al computer, le uscite
con le persone che non ci piacciono, le parole sbagliate, un
parcheggio impossibile, l'ossessione di fare le cose sempre allo
stesso modo, i falsi ricordi, i centimetri minimi di intelligenza e i
chilogrammi massimi di sopportazione, la faccia al muro, i desideri
per cui siamo pronti a tutto.
Sapevo
cosa mi stava chiedendo mia sorella, sapevo come mi sarei dovuta
battere, allora mi sono stesa a terra supina: ho allungato le braccia
oltre la testa e ho piegato le gambe, avvicinando i piedi al resto
del corpo, ho deglutito e, esattamente come facevo a quattro anni
quando Oris me lo ha insegnato, mi sono tirata su, con il corpo a
ponte, teso verso l'alto. «Ora stacco la testa, resto sospesa e le
dimostro che non ho bisogno di uscire da questa casa...», ho
pensato.
Questa
è l'ultima cosa che mi ricordo: dopo solo dolori
desemantizzati, brick di Estathè che si fingevano morti e Pezzetta
che suonava cover di filastrocche.
Domani
vado a iscrivermi in palestra.