Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

martedì 15 marzo 2016

Ponte ponenthè ponte pi

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Certe volte, mentre scrivo, riesco a stare, anche per tre quarti d'ora, con entrambi i piedi sulla sedia, le gambe piegate ad altezza busto che mi coprono la visuale della tastiera e le braccia sospese a mezza luna, arrondies ma allongées, per far arrivare le mani a battere sui tasti. Altre volte, al cinema, riesco a stare, anche per tutta la visione del film (trailer compresi), con il culo sulla punta della seduta, gli stinchi appoggiati sullo schienale della poltrona davanti, i piedi sospesi e la schiena accartocciata a parabola – per una migliore ricezione delle immagini. Di base, praticamente sempre, tengo entrambe le spalle sollevate, tese verso l'alto, quasi ad altezza orecchie, come se stessi perennemente in posizione di rassegnazione, impossibilità, indifferenza: sempre in assetto Non è gobba, è il mio guscio da Tartaruga Ninja.
Queste sono solo alcune delle posizioni che assumo nella vita, sono solo parte degli assestamenti corporei che alimentano la mia cifosi in maniera insensata ma interessante. Creo nuovi spazi, nuove superfici curve, coppe di sibilanti clavicole concave, muscolosissimi recipienti di addominali obliqui, bottiglie con un collo del piede anatomicamente perfetto. E poi riempio tutto di Estathè.

L'altra sera, durante la cena, avevo la schiena molto dolorante e allora ho provato a dire ad Oris: «Ehi, senti, ti ricordi quando...», ma lei ha battuto forte le mani, Pezzetta si è bloccato con la testa nel piatto e il Piccolo Coro dell'Antoniano si è sistemato dietro di lei, pronto ad accompagnarla qualora fosse stato necessario.
«Mi ricordo cosa, piccola recriminatrice? Tu quando parti all'indietro sei pericolosa, nostalgica e lamentosa», mi ha risposto Oris, minacciandomi con un dito verso il coro.
«Mi chiedevo soltanto se ti ricordavi quando saltavamo con la corda e roteavamo l'hula hoop. Volevo sapere se ti ricordavi quanto eravamo agili e scattanti...»
Oris mi ha guardata male, ha alzato le braccia al cielo e il Piccolo Coro dell'Antoniano ha iniziato a vibrare: «C'era un piccolo piccolo rospo, c'era un piccolo re. Cademisolfami cademisolfami. Bim Bum Bam...»
Oris fa così quando non mi vuole sentire, usa una metodologia dissimulatrice musicale: una presa di posizione che le permette di ammutolirmi usando una mimica drammatica ispirata a Mariele Ventre – e riuscendo a sfruttare, nel contempo, le armonizzazioni di un piccolo gruppo di bambini indifesi.

Pezzetta, dopo quasi otto anni di convivenza con noi due, ha imparato a riconoscere i momenti di esaltazione, li fiuta, li teme e li fugge, imitando un comportamento animale che si chiama tanatosi: in pratica, irrigidisce totalmente il corpo e si finge morto. Ma stavolta, anche se, alla comparsa del Piccolo Coro dell'Antoniano, si era bloccato con la testa nel piatto, Oris è riuscita a cogliere un'alzata di sopracciglia di dissenso, in mezzo a quei capelli lunghi, a quella barba folta e a quegli occhialoni enormi e gli ha detto: «Che c'è? Non conosci questa filastrocca?». Poi ha alzato un braccio e...
«Quattro pirati nel Mar dei Sargassi hanno una zattera fatta di assi, vanno remando dicono loro alla ricerca di un grande tesoro...».
Il fatto che Pezzetta, dalla sua posizione di immobilità, non seguisse le nostre mosse sulla filastrocca ci ha sconvolte, tanto che abbiamo telefonato a sua sorella per sapere se era un caso unico o se Benevento applicava un boicottaggio delle rime baciate nelle infanzie di tutta la provincia.
Alla notizia che Pezzetta era, come al solito, il nostro petalosissimo caso unico, Oris è scattata in posizione Sono la regina di tutte le coreografie del mondo e via. Via tra: «Pezzetta, sei troppo lento, ci fai perdere il ritmo!» e «Io ho una zia, una zia che sta a Forlì che quando va a ballare con il piede fa così, così, così...», tra «La macchina del capo ha un buco nella gomma» e salti, sventolii di braccia e cerchi di sei mani che battono uno sull'altra, tra «Era una notte pioveva a catinelle, andavo in giro senza le bretelle» e: «In piedi, Pezzetta, lo sappiamo che non sei morto! Iris, fallo rinvenire con i sali di Estathè!».

A fine seduta, io ero stremata, la schiena mi faceva sempre più male, le spalle erano sempre più contratte e le gambe tese. Io non sono brava come Oris, in queste cose: io arranco, mi muovo male, sbaglio i passi e non ho cognizione del mio corpo (sono giorni che ho un livido enorme su un fianco e non ho idea di come sia arrivato lì).
Due settimane fa, a un pranzo di famiglia, dopo che avevo mangiato e bevuto tantissimo, mio cugino sano, quello nutrizionista che mangia bene, insegna basket, ha fatto una vita di pallanuoto e gioca nella zona atletica della famiglia, ha preso me e Oris e, una per volta, ci ha posizionate su una panca che aveva costruito per suo padre: uno strumento di tortura a forma di V. Gambe e schiena sollevate dello stesso angolo, salsicce e Barbera che mi sguazzavano nello stomaco e lui che continuava a premere sul mio torace, dicendo: «Hai un pezzo di legno, non hai un diaframma. Come ti senti? Che cosa mangi? E quante volte al giorno? Sapresti elencarmi quali sono i carboidrati?». Io guardavo Oris con disperazione, ma lei – che per una volta era fornita di cellulare in una situazione al limite – continuava a scattarmi foto e a ignorarmi, nella speranza che vomitassi sul tappeto della camera da letto dei miei zii.
«Iris, senti, io me lo ricordo quando saltavamo alla corda e roteavamo l'hula hoop, ma Pezzetta te lo ha spiegato che non puoi fare sport in casa: non puoi metterti a zompettare in salotto. Devi uscire, dobbiamo uscire. Lo sai cosa sta per succedere...»
«No, noi non ci iscriveremo in palestra!», ho urlato senza forza, con le mani a sostenermi la parte bassa della schiena. Oris ha ecumenicamente allargato la braccia, mi ha guardato con gli occhi di sfida e il Piccolo Coro dell'Antoniano ha intonato: «Ponte ponente ponte pì tappetà Perugia ponte ponente ponte pì tappetà perì!».

Le posizioni in cui riusciamo a metterci, nella vita, sono molto spesso scomode, ineleganti, nocive: il tempo davanti al computer, le uscite con le persone che non ci piacciono, le parole sbagliate, un parcheggio impossibile, l'ossessione di fare le cose sempre allo stesso modo, i falsi ricordi, i centimetri minimi di intelligenza e i chilogrammi massimi di sopportazione, la faccia al muro, i desideri per cui siamo pronti a tutto.
Sapevo cosa mi stava chiedendo mia sorella, sapevo come mi sarei dovuta battere, allora mi sono stesa a terra supina: ho allungato le braccia oltre la testa e ho piegato le gambe, avvicinando i piedi al resto del corpo, ho deglutito e, esattamente come facevo a quattro anni quando Oris me lo ha insegnato, mi sono tirata su, con il corpo a ponte, teso verso l'alto. «Ora stacco la testa, resto sospesa e le dimostro che non ho bisogno di uscire da questa casa...», ho pensato.
Questa è l'ultima cosa che mi ricordo: dopo solo dolori desemantizzati, brick di Estathè che si fingevano morti e Pezzetta che suonava cover di filastrocche.

Domani vado a iscrivermi in palestra.