Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
“Ehi
tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi
una voce fuoricampo”
Durante
questo mese fuori dal comune, per motivi lavorativi, non ho fatto
altro che scrivere «Miao!» a padroni di gatti che mi parlavano per
voce dei loro felini. Sembra assurdo, ma è così, e io non posso
continuare a tenermi dentro questa bizzarra e ingombrante palla di pelo.
Miao!
Sono Puffetta ma mamma Lea, la mia umana di riferimento, mi chiama
Ciccia. Dici che è una questione di amore oppure dipende dal fatto
che peso 14 kg?
«Puffetta,
non costringermi a fare psicologia spicciola...», avrei voluto
scriverle, «Dammi retta: passa dai croccantini all'Estathè» e
invece credo di averle risposto: «SuperMiao, Puffetta! Sei
splendida!», in preda a un feroce distaccamento da me stessa.
Quando
ho saputo che il mio romanzo era il libro del giorno a Fahrenheit, mi
sono detta: «È la fine, non
sono lucida. Farò un casino...», quindi ho chiamato mia madre per
essere rassicurata.
Mia
madre, oltre a essere un motorino di avviamento della mia ansia, è
la mia voce fuoricampo per eccellenza: quella che mi risuona nelle
orecchie quando sto per comprarmi un qualsiasi capo d'abbigliamento
nero corvino («Iris, non sarà troppa allegria?») o quando decido
di non uscire per il terzo weekend di seguito («Se mi arriva una
mail scritta dalla tua pecora di peluche Castellana, sappi che ti
faccio rinchiudere io, ma stavolta in maniera definitiva...»).
«Il
problema di questa diretta radiofonica non è tanto che non sei
lucida», mi ha detto la mia umana di riferimento. «Il problema è
'sta vocetta gne gne gne: mi immagino mezz'ora di trasmissione
a sentire gne gne gne...»
«Mamma,
non so come farei se non ci fossi tu»
«Faresti
comunque gne gne gne, credo...»
Grazie
alla mancanza di Estathè patita nell'ufficio dei gatti e alla
maniera in cui mia madre mi ha motivato a non essere troppo me
stessa, ho avuto un tremendo calo di voce, subito prima della
diretta; quindi, alla fine dei conti, sono risultata un po' rauca, ma
quasi raffinata (nonostante questo, sono riuscita a rispondere a una
domanda usando la parola disincrostante, giusto per continuare a barcamenarmi tra la
mia figura di scrittrice e il mio ruolo di massaia che deve
ricomprare il WC Net).
«Mamma,
ti volevo dire che ora che ho finito questa cosa dei gatti, devo
partire: faccio una specie di mini tour idraulico in Emilia
Romagna per presentare il libro»
«Una
trasferta, insomma», mi ha risposto lei, sfregandosi le corde vocali
tremolanti sulla cassa armonica dei suoi meccanismi inconsci.
A
mia madre ogni trasferta procura un transfert: le mille tappe
lavorative di Oris non le hanno fatto superare questo trauma. Così,
la sua mente procede in un viaggio emotivo che sposta i sentimenti
che lei provava per me bambina (quando ero una cucciola scontrosa incapace di interagire con il mondo) e li appiccica sui sentimenti che prova adesso
per me trentenne.
Quella
del transfert è una disciplina olimpica molto in voga tra le mamme
ansiose e poco concilianti: mia madre è campionessa mondiale di
rimozione dalla sua coscienza della mia vera età, delle mie nuove
(anche se tentennanti) capacità.
«Te
lo dico prima, mamma: non chiamarmi tremila volte! Farò pure gne
gne gne, ma non sono una bambina»
«Infatti
non sei UNA bambina, tu sei LA MIA bambina»
Mamma
sono sul treno. Mamma sono sempre sul treno, mi hai chiamato dieci
minuti fa. Mamma, se ti dico che parto alle 12:28 e mi chiami alle
12:26 mi fai squillare il telefono mentre sto sistemando la valigia,
può essere che non lo capisci? Sì, Frederick mi ha fatto trovare
l'Estathè a casa sua perché qui in Emilia Romagna i bar sono un po'
sforniti. Mamma, non è che sto sempre a cazziarti, è che sei una
persona impossibile. Mamma, non ti ho risposto perché stavo
salutando il mio amico Frederick che non vedo mai e, se vogliamo dirla tutta, mi hai pure
interrotto il momento del distacco con questo dannato drìììn.
Mamma, non dire che non vedo mai nemmeno te. Ah, non ti ricordi più
se sono la tua figlia bionda o quella mora? Povere noi. Mamma, lo sai
che Oris, al mio posto, non ti risponderebbe più? Mamma, ciao: sono
sul treno. Guarda che non ti sto mentendo: sono sempre sul treno. Non
faccio altro che prendere treni anche se tu fai di tutto per farmeli
perdere.
Questa
è più o meno la sintesi del mio tour di presentazioni: le parti
salienti hanno una protagonista assoluta, che veniva annunciata da un
temibile Drìììn.
E
poi, a un certo punto, dopo aver fatto Roma-Bologna, Bologna-Rimini,
Rimini-Bologna, Bologna-Rimini-Cesenatico e in attesa di fare
Cesenatico-Rimini-Bologna-Roma, mi sono ritrovata di notte, da sola,
in riviera, con il freddo, la grandine che mi aveva reso fradicia e
quasi tutti i ristoranti chiusi. Mia madre mi aveva chiamato una
volta di troppo e l'avevo minacciata che se mi avesse fatto squillare
ancora il telefono l'avrei buttato in un canale.
La
solitudine mi stava facendo quasi pentire della cosa, quando: drìììn.
«Papà.
Oh, papà, dimmi. È successo
qualcosa? Non mi compariva il tuo nome sullo schermo del cellulare da tredici
mesi...»
«No,
è che sono ancora a caccia e volevo sapere se tutto andava bene...»
«Ancora
a caccia? Di domenica notte?»
«Eh,
sì...»
[Intanto,
su un'altra linea telefonica...
«Mamma,
non ti capisco, se non parli più forte, non ti capisco. Ma ti
assicuro che Iris sta bene, non la devi richiamare... Alza un pochino la
voce. Dai!»
«Oris
bhhhhrhssbbsb tuo padre pshoshpos qui haischohi stiamo
facendo finta che sia ancora a caccia brshbace»]
Mezzucci.
Vergogne. Dinamiche impossibili da disincrostare.
«Nonna,
ciao. Sono tornata a Roma! Come va?»
«Oddio,
Peppì! È Iris, sta bene!»
«Nonna,
certo che sto bene...»
«Abbiamo
avuto il divieto di telefonarti. Tua madre ci ha terrorizzati, ha
detto che non volevi sentire nessuno. Io, ogni volta che sto telefono
sguillava, gli urlavo Peppì, magari è Iris!»
Famiglie.
Palle di pelo. Ansia congenita. Litri di Estathè.
Miao Puffetta! Sono Iris, non so se ti ricordi. Volevo parlarti della mia seconda intervista radiofonica, fatta per Radio Bruno, in cui ho urlato e parlato così velocemente da sembrare sotto botta di cocaina. Tu che dici? È dipeso dalla paura della mia voce che fa gne gne gne? Dal fatto che mio padre e mia madre mi prendono in giro come ai tempi della Madonnina della 'Mella? Dai miei nonni che vanno nel panico e mi danno per dispersa? Oppure è sempre tutta una grande questione d'amore?
In attesa di risposte, incrocio le vibrisse.
E miao
a tutti.