Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
“Ehi
tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi
una voce fuoricampo”
Da ieri il mio primo romanzo si trova in libreria e io mi sento
tranquilla. Se togliamo tutta quella roba inconscia di vertigini,
formicolii e del secondo e terzo dito del piede destro che mi si
sono addormentati, posso dire di sentirmi tranquilla.
Sono stati versati fiumi di Estathè, serviti calici a forma di brick, raccolte
gocce con le cannucce bianche, esattamente come succede in tutti i
giorni appicciccosi e chimici di questa mia vita, perché, in fondo, ieri è stato un giorno identico a tutti gli altri, con la gente che urlava «Maria puttana incivile» dal palazzo di fronte e quelli di sotto
che soffriggevano l'aglio alle dieci di mattina.
Quindi,
cari Illice e Trillice, vi sareste pure potuti svegliare, senza continuare a mandare avanti questo melodramma di nervi tesi, tanto Crosta è ormai lontano da qui e non può farci
niente...
Crosta.
Già, Crosta. Mi spiego, visto che la cosa riguarda il modo in cui la mia condizione di scrittrice può essere sintetizzata da un cocktail.
Un
mese fa, quando ho compiuto trent'anni, sono andata con degli amici in
un locale e, a un certo punto, si è avvicinato questo sedicente
Crosta, mentre ero con un sottogruppo di belle fanciulle, e si è
presentato.
«Che
strano nome Crosta. E' un diminutivo del cognome?»
«No
no. So' proprio io...»
«Una
crosta?», ha chiesto una delle mie amiche, indisponendolo. E allora lui ha
concentrato le sue attenzioni su di me, la solita fortunata.
«Aò,
ma che c'hanno le amiche tue? Je rode er culo?»
«No,
è che stiamo festeggiando il mio compleanno»
«Ah,
ecco. È il tuo compleanno,
Itis»
«Veramente
il nome sarebbe Iris. Itis fa troppo Istituto Tecnico Industriale
Statale...»
«Quindi
tu lavori in questo istituto?»
«No,
no. Veramente io scrivo»
«Che
fai tu?»
«Io
scrivo, ecco. Sono una scrittrice»
Non
so bene perché l'ho detto. Forse perché era il mio compleanno,
forse perché lui capiva la metà delle cose che dicevo o forse
perché un po' me lo sentivo che Crosta mi avrebbe regalato quello
splendido momento d'ira in cui, con gli occhi fuori dal suo
bicchiere, ha aspettato di deglutire per bene, prima di urlami: «Ma
mo' te tiro 'sto cocktail 'n faccia, mortacci tua!».
È
stato grazie alla mia amica Pallax, avvezza al romanesco e amante di
Richard Benson, se il mio compleanno non è finito in tragedia.
Crosta,
se mi ascolti, te lo dico da qui: non ti stavo prendendo in giro.
Scrivo davvero. Ho scritto. E spero che scriverò ancora. Ho pure un
accenno di gobba, se guardi bene.
E
poi, oh: ho questo. Te lo dovrei tirare io un cocktail in faccia,
mortacci tua.
«Abbiamo
problemi più grandi di questo, cara Iris Versicolor: problemi
peggiori della tua condizione di scrittrice, delle tue dita dei piedi
e di Crosta»
«Quali
problemi, Iris?»
«Ecco,
esattamente questo. Io sono un personaggio del tuo libro, sto facendo
la voce fuori campo del tuo blog e mi chiamo come te. Iris. Non credi
che questo creerà confusione?»
«Non
tutte quelle che si chiamano Maria sono puttane incivili. Non tutte quelle che si chiamano Iris bevono Estathè. Prova a
cercarle Iris e Maria per Roma e chiedigli se bevono l'Estathè...»
«Io
non so nemmeno cosa sia l'Estathè e tu sembri farneticare...»
«In
effetti, mi sento confusa»
«Visto
che avevo ragione?»
Ok,
lo ammetto. Non sono tranquilla. Per niente. Pezzetta e Oris mi hanno
comprato una scorta di Estathè che sembrava infinita, ma devo averne
bevuto due lettere perché adesso sembra finita. E poi le cose che si
realizzano sono sia bellissime che spaventose: se solo penso a quando
il mio amico Tommasino mi faceva soffiare sui denti di leone per
esprimere i desideri o a quando le candeline, le stelle, i primi
frutti di stagione mi spingevano a desiderare sempre la stessa cosa,
trovo assurdo che sia successo.
«Mo
si può pure cambiare 'sto desiderio, no? Passare alle cose normali,
tipo: trovarsi un fidanzato, farmi un nipotino...», mi ha detto una
persona di cui cercherò di mantenere l'anonimato (dirò solo che
inizia per M e finisce con IA MADRE).
Ma
il libro è stato effettivamente sistemato in libreria e allora io, ieri, mentre
impedivo a un piccione di sostare sul mio davanzale e indossavo il
busto ortopedico di Oris, sperando che qualche muscolo si rilassasse e
che Illice e Trillice si svegliassero, ho pensato a due cose.
La
prima è il giorno in cui Simone, il mio editor, mi ha detto che la
Elliot avrebbe pubblicato il libro. Ero con mio nonno, in una camera
di ospedale, perché lui era in terapia intensiva (ora Peppino
sta bene, è insolente come sempre): l'ho guardato e gli ho detto
«Nonno, mi pubblicano il libro». Lui ha strizzato gli occhi e mi ha
risposto: «Io invece ho fatto cadere per terra tutta la camomilla
che mi hai portato». Le due cose, in effetti, hanno vari punti di equivalenza.
E
poi ho pensato al giorno in cui hanno stampato il libro e io sono andata
dalla mia famiglia per mostrarglielo. Non sapevo bene cosa dire a
nonna Berta (che ha sempre guardato i libri con un certo sospetto -da
piccola me la immaginavo urlami dietro la poesia del Belli: «Li
libri nun so' robba da cristiano: Fiji, pe’ carità, nun li
leggete.»),
quindi le ho dato il libro e le ho detto: «Nonna, dopo i libri che
ho letto, adesso uno l'ho scritto»; lei mi ha risposto con uno
sguardo truce, si è rivoltata quel mattoncino verdeacqua tra le mani
e preoccupata mi ha chiesto: «Quindi pure questo ti sei letto?».
«Beh,
nonna, l'ho scritto. Quindi, sì, me lo sono dovuta pure leggere.»
«Aò,
vabbè. Ma io che ne so...»
Ieri è stato un giorno come tutti gli altri. Ma forse anche no.
Pure io, in fondo in fondo, cosa volete che ne sappia...
Pure io, in fondo in fondo, cosa volete che ne sappia...