Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

lunedì 27 ottobre 2014

Fucilathè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Oggi è uno di quei giorni che mi capitano ogni tanto. Inizio a riflettere e a bilanciare, a tirare linee di conto e a spingere i tasti della calcolatrice pensando di poter trasformare in lettere i pulsanti numerici.
«Nel 1958, 1 giovane donzella si imbarcò per un viaggio di fortuna su una nave con 5 marinai che le promisero che l'avrebbero portata X i 7 mari. Dopo un terribile naufragio, però, si persero i marinai e le promesse. Chi rimase?»
Ho fatto scivolare la calcolatrice verso Charlie Kaufman, stamattina, dopo avergli raccontato questa storia. Ero convinta che avrebbe capito, almeno lui, in tutto questo strano e semplicistico universo.
«1370705», mi ha risposto.
Sbuffando, gli ho spiegato che avrebbe dovuto girare la calcolatrice per leggere la fine della storia: «Vedi?», gli ho detto. «C'è scritto: SOLOLEI. Chi rimase? Solo lei».
«Non hai battuto lo spazio, Iris. Ecco perché non ho capito...»
Non me la sono sentita di rispondere male a Charlie Kaufman, stamattina, anche se è uno di quei giorni in cui, tra le operazioni di compensazione e i calcoli sbagliati, finisco per decimare le mie scorte di Estathè ed essere sempre più nervosa. Ma, in nessun caso, puoi dire al tuo sceneggiatore preferito che, se non è a conoscenza del fatto che non è possibile battere lo spazio sulle calcolatrici, allora che vada a parlare con qualcun altro.
Quello che mi frega, quando penso in maniera ossessiva alle cose che mi succedono, è che ci metto in mezzo la storia del fucile di Cechov, ovvero la necessità di una premeditazione narrativa: mi dico che se la vita fosse scritta bene, non dovrebbero inserirci elementi che poi non sparano, fucili che si infiltrano nella nostra personale sceneggiatura e che poi non servono a niente.
«Dammi tempo», mi ha detto Charlie.
«Non si può battere il tempo sulle calcolatrici», gli ho risposto io. «Cavolo, però: non sai niente di niente, Charlie Kaufman!»

In giorni come questo, mi chiedo tante cose. Del tipo.
Domanda di Iris: «A che cosa è servito farmi rimorchiare da quel documentarista biondo un po' sovrappeso che mi ha fermato, a una festa, chiedendomi a che cosa davo 10 nella mia vita? A cosa è servito dare una gomitata alla mia amica ubriaca lurida che mi ha urlato nell'orecchio, a pochi centimetri da lui: Ma che te devo libera' da sto ciccione?? A cosa è servito uscirci insieme, urlare di gioia alla notizia che aveva un Basset Hound, farsi convincere ad andare a casa sua a vedere il cane, come una sprovveduta qualunque?»
Risposta di Charlie: «È servito. È servito a regalarti quel momento unico in cui eri seduta sul divano e lui, dalla poltrona, ti ha detto: Tra qualche minuto ti chiederò di fare una cosa e tu sarai costretta a farla e tu hai pensato: Ecco, brava, complimenti, stai per morire a casa di un ciccione biondo che ti ha convinto a venire nel luogo del delitto con la scusa di mostrarti un cane ansimante che ti ha sbavato sulle converse e poi è salito sul divano solo per iniziare un'opera di spinta fuori dai cuscini di questa stronza che si vuole evidentemente rubare il mio padrone. È servito perché quello che doveva chiederti era di ballare un lento con lui, stava solo aspettando che partisse Can't help falling in love with you di Elvis sulla playlist che aveva accuratamente preparato; e tu hai potuto guardare male il Basset Hound, farlo rosicare, abbracciando quell'uomo come se non volessi fare altro che ballare con lui, per sempre (anche se, in realtà, dopo quella sera, non lo avresti visto mai più)...»

«E INVECE NON È SERVITO, CHARLIE! DICIAMOCI LA VERITÀ: NON METTEREMO MAI QUESTA SCENA NEL TRAILER...», ho urlato sul finire della seconda bottiglia di Estathè. « E scusa se urlo, è la teina, non sono veramente io».
Ci abbiamo riprovato, con un triliardo di esempi di cose inutili e irrilevanti, persone che sono entrate nella mia vita solo per uscirne, uomini che mi hanno corteggiata per poi dirmi: «È una questione politica, non posso creare un precedente con te» o migliori amici single incontrati, per caso, mano nella mano con le loro fidanzate (non erano così single come dicevano), alle quali hanno presentato solo una Oris sconvolta dai fatti, fingendo di non conoscermi, per poi dirmi, in separata sede: «E' una questione matematica, non ti potevo aggiungere alla nostra equazione».

«La tua non è semplice sfortuna», mi ha detto Charlie. «È un enigma matematico complesso, una geometria narrativa non euclidea. Non risolveremo le cose con una calcolatrice sulla quale non si possono computare lo spazio e il tempo...»
«Dannato di un Charlie Kaufman, hai sempre ragione tu!».

E infatti, a quel punto, il mio sceneggiatore preferito ha fatto squillare il telefono, come una fucilata. Era mia madre che rideva scomposta da casa di nonno Peppino e nonna Berta: mi ha raccontato che i carabinieri hanno telefonato a mio nonno e gli hanno detto che, visto che non va più a caccia, non può detenere ancora il suo fucile d'epoca, la carabina che possiede da sessant'anni. Lo hanno convocato e gli hanno spiegato che la cosa più semplice da fare era donare l'arma a mio padre che ha tutti i documenti in regola e può sistemarlo in casa, senza rischiare denunce.
Lui ha accettato e mio padre ha firmato, ma poi.
«Peppì, mo' tuo genero si deve portare via il fucile», gli ha detto nonna Berta a cena.
«Non credo proprio. Il fucile non si muove da questa casa»
«Ma se gli fanno un controllo, ci passa i guai...»
«E chi se ne frega. Il fucile non si muove da questa casa, tanto è scarico. Non ho nemmeno una cartuccia...»
«Non è vero! Ne hai quattro nel tuo comodino...»
«IL FUCILE È MIO. PUNTO E BASTA!»
Era proprio mio nonno che urlava, non c'entrava l'Estathè. Mia madre rideva al telefono, mentre lui continuava a dire che non glielo voleva dare quel fucile a mio padre, che lo voleva dare a sua figlia, che quel fucile sarebbe uscito da quella casa solo tra le braccia di mia madre.
«Mamma, ma che ti ridi?», le abbiamo detto io e Charlie.
«Rido perché, per farlo calmare, gli ho dovuto dire che non importa che la carabina non è intestato a me, che tanto, alla fine di tutto, sarà tua e di Oris...»
«E quindi ve lo ha smollato 'sto fucile?»
«Certo che no», mi ha detto lei, continuando a ridere.

E allora ho cominciato a ridere anche io perché ho pensato che, forse, tutti questi conti che non tornano, queste calcolatrici che non risolvono i miei guai, queste persone che agiscono e parlano in maniera assurda, questi documentaristi che fanno odiare Elvis dai loro cani e queste bottiglie di Estathè che sembrano avere un buco sotto da quanto finiscono in fretta sono fucili che è bene che non sparino. Come quello di nonno Peppino.
«NON TOCCATE LE MIE CARTUCCE!», è stata l'ultima cosa che ho sentito.

«Questo sì che lo mettiamo nel trailer», mi ha detto Charlie.