Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

domenica 22 settembre 2013

In thènera età

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Da quando ho iniziato a essere una tipa sportiva, con questo fatto che le palestre sono piene di specchi nei quali ti puoi guardare mentre l'istruttrice di Fit Burlesque ti dice Ora, sensualità a corpo libero, è aumentato il mio leggero problema di dismorfofobia.
La suddetta patologia mi fa pensare di essere sempre troppo alta, troppo sgraziata, troppo imponente, in pratica un donnone (io lo so razionalmente che non è così, ma poi vedo tutta questa gente minuta intorno a me...): l'ortopedico mi ha detto che questo è il motivo per cui ho un atteggiamento cifotico. In pratica, passo troppo tempo con mia sorella e, a livello inconscio, mi sento la bambina che ha comprato la Polly Pocket bionda o Gulliver che è sbarcato a Lilliput, un paese in cui la gente è alta come un brick di Estathè; quindi mi incurvo e cerco di diventare più piccola.
Leopardi, avendo capito che le mie deformazioni erano troppo prosaiche per i suoi gusti, mi ha abbandonato di fronte a quello specchio, senza nessuna intenzione di esprimersi in una sensualità a corpo libero e, nell'immobilità di quel silenzio carico d'imbarazzo, è arrivato lui: il mio trauma rosso, calvo e in falsa camicia, al grido di: «Belin, Leopardi, ti spacco la faccia!».

Per spiegare questo trauma, devo tornare a un tempo lontano, fare un passo indietro verso la tenera età, anche se più che tenera, io sono sempre stata molto stoppacciosa.
(Oris sostiene che si può parlare di tenera età entro i tre anni, tre anni e mezzo al massimo, che lei non mangerebbe mai un bambino quattrenne, sarebbe già troppo duro. Ma si sa che Oris è un buongustaia).
Faccio fatica a fare questo passo indietro, proprio a causa della mia dismorfofobia: non riesco a pensare di essere mai stata fisicamente piccola. Quando, quest'estate, ho ritrovato il mio completino da giovane fantina, ho passato varie ore con le braccia infilate nei pantaloni beige e il cap che mi copriva metà testa, a riflettere su quanto e perché si fossero sviluppate così tanto le mie ossa; fino a quando non mi ha visto mia madre in quelle condizioni e mi ha detto: «Non sei mai stata normale, ma quandanche volessimo affrontare tutto questo con l'ippoterapia, hai bisogno di un completino nuovo».
Eppure c'è stato un tempo lontano, da qualche parte, in cui io sono stata piccola, addirittura più piccola di Oris.
«Tutti gli anni, mi obblighi a mettere vestiti di carnevale usati. Tutti gli anni, sono costretta a essere un personaggio che mia sorella è stata già. Me lo ricordo come se fosse ieri» mi dice mia madre quando vuol farmi sentire in colpa «hai recitato quell'accusa e mi hai guardato come se fossi la madre peggiore del mondo»
Leggenda narra che, dopo che l'ho smascherata, mia madre mi ha portato in un negozio di maschere. Quella furbona linguistica.
«C'è la principessa delle nevi, ci sono Barbie Manager e Barbie Gran Galà; guarda c'è anche la principessa Sissi! Sono bellissimi Iris! Quale vuoi che sia il vestito tuo solo tuo?».
Non so se è stata la sua domanda ironica, quel tuo solo tuo, o se è stato il fatto che non sono mai stata normale, ma, a quel punto, ho visto rosso, ho visto calvo, ho visto falsa camicia e ho detto: «Mi voglio vestire da Gabibbo».
Pausa. Faccia basita di mia madre. Acquisto. Trauma.
Era il 1991, avevo sette anni, e il pomeriggio di quel giovedì grasso, in un imbarazzo incredibile che mi ricorderò per sempre, Iris-Gabibbo e Oris-Marie Antoinette uscirono di casa mano nella mano.
(Sono quasi certa che la stessa scena si sia verificata in casa Coppola e che questa sia la motivazione della carriera cinematografica di Sofia: non tanto Marie Antoinette, più la parte delle Vergini suicide).
E' stato il peggiore carnevale di sempre: tutte le principesse mi guardavano, i pirati e i zorro mi sfidavano a singolar tenzone, c'è stato perfino un arlecchino che mi ha riso in faccia. Era come uno di quei sogni in cui cammini nudo per strada e non sai perché e non puoi farci niente, perché Marie Antoinette si sventola con la sinistra senza lasciarti libera la mano e tua madre ti guarda con lo sconcerto di chi si ripete: «Figli piccoli, problemi piccoli. Figli grandi, problemi grandi. Cosa mi riserverà il futuro?»

Quando l'istruttrice ha alzato la musica e ha iniziato a muoversi, io ho chiesto con voce sottile se gli addominali potevano considerarsi validi e quello sboccacciato del Gabibbo ha iniziato il suo show.
«Mea, ragassa, mi sei simpatica! Facciamola insieme questa sensualità a corpo libero»
«Vattene via, frodatore razzista, lo sanno tutti che il tuo costume appartiene a Big Red, la mascotte della Western Kentucky University...»
«Uè, besugo d'un besugo»
«...ecco, appunto, besugo è un sinonimo di terrone...»
«Ti sei fatta un lifting col leasing? Mea, mi sei simpatica!»

Ovviamente, non ho fatto l'esercizio di sensualità a corpo libero, visto che perfino il Gabibbo era più aggraziato di me, nonostante sia il pupazzo più imbarazzante del secolo, nonché l'unico costume al mondo che impedisce la fruizione dell'Estathè durante il suo utilizzo.
Freud, l'ortopedico che si occupa di correggere i miei atteggiamenti cifotici, dice che vestirmi da Gabibbo è stato un modo contorto per esprimere la mia diversità, per rendermi ridicola, una specie di masochismo infantile con l'accento genovese.
Perché non mi sono vestita da fantino, da Gulliver, da Polly Pocket oppure da brick di Estathè? Perché, dopo un anno sabatico (l'anno dopo mi sono chiaramente rifiutata di indossare alcunché), ho rinunciato alla sobrietà in nome di un costume da finestra? Perché a ventinove anni, mano nella mano con Oris, sto seguendo un corso di Fit Burlesque?
«Perché sei un macaco perdibraghe, ecco perché!»
A fine lezione, sembrava sparito, sembrava esserci più spazio nel mondo, io mi sentivo addirittura più piccola; invece era in agguato dentro l'armadietto, pronto a cantarmi: «Tutto torna, tutto nasce, nella rumenta...»

E' ufficiale: la vita è un incubo senza fine e va in onda su canale cinque.
Mamma mia, quanto odio il Gabibbo!

giovedì 12 settembre 2013

Pilathès

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Mia sorella Oris ha acquisito, nel tempo, diverse specializzazioni: ha un master in persuasione silenziosa di soggetti iperattivi (fa le cose con una lentezza talmente snervante da condurti a terminarle al suo posto, pur di vederne la fine -ok, lo ammetto, sono io il soggetto iperattivo), un diploma in movimenti ondulatori post-cena (riesce a girarti intorno mentre sparecchi, facendoti pensare che ti sta aiutando, ma in realtà la sua è la danza di chi non sta muovendo un dito) e una laurea in Se fossimo in un mondo giusto, io ne sarei l'imperatrice.
Poco tempo fa, abbiamo ritrovato un suo tema delle elementari (ripeto: elementari!) che cominciava così: «Io ottengo sempre quello che voglio...».
Credo che, a tal fine, lei utilizzi una forma raffinata di pressione. Pressione bassa, ovviamente: molto bassa. Un'ipotensione che non riusciamo nemmeno a percepire ma che ci lavora ai fianchi, mistifica, confonde le carte in tavola, e porta a:
«Pezzetta, perché stai lavando i piatti?»
«Perché Oris li ha lavati ieri e oggi a pranzo»
«Veramente, ieri li ho lavati io e oggi, a pranzo, lei nemmeno c'era»
«Cazzo, m'ha fregato pure oggi. Vabbè, tanto ormai ho finito...»

E' stato così che è successo tutto. E' stato così che io e Leopardi ci siamo ritrovati su uno step, in imbarazzo, sudati e senza che io potessi bere Estathè.
Ora, come ben sapete, ho già il mio bel carico di problemi, quindi lo sguardo fisso di Oris, con quegli occhi giganti da Pollon Combina guai, e il mantra Andiamo almeno a vedere com'è la palestra che ha usato contro di me, non ho potuto sopportarlo oltre un certo tempo.
Dopo sette anni, ho ceduto e l'ho seguita.
L'infida biondina dei Ricchi e poveri, mentre io guardavo veramente com'era la palestra, ha tirato fuori il bancomat e ha fatto l'abbonamento di tre mesi per entrambe; poi mi ha detto «Ormai ho pagato, ora ci devi venire». E poi, piano piano, dentro di sé, io lo so, si è detta: «Io ottengo sempre quello che voglio!».

«Irisù, tu non me pòi fa quescdo. Ce simo messo tandi anni pe' fatte venì quella bella gobetta sulle spalle. Mo' la volemo perdè cuscì, de pundo in bianco?»
«Giacomo, lo so, ma mi ha ricattato»
«Se chiama Silvia 'sda stronza, vè?»
«No, si chiama Oris»
«Eravamo quasci arrivadi alla seconda gobba, c'eravamo quasci. Scendi da sto scalino, 'namo a scrive 'n sonetto...»
«Giacomino, non so che dire. Ora non mi distrarre, però, sto facendo GAG!»

Il ventinovesimo cerchio della mia vita, in questa quotidiana (e poco divina) commedia, è stato finora suddiviso in tre gironi infernali: rottura del gancio della tenda, matrimonio senza amore con il Gaviscon e scoperta dell'esistenza del GAG.
Gambe-addominali-glutei è una forma di tortura moderna, durante la quale un istruttore sudato dai bizzarri gusti musicali racconta a uno specchio pieno di donne molto più sudate di lui una serie di mosse ritmate con step, tappetino e bilanciere.
Mentre Giacomino beveva Estathè alle mie spalle, cercando di trovare un termine giusto per descrivere le ragazze di quella classe, a me ne è venuto in mente solo uno, in romanesco.
Erano «ingarellate». Eravamo ingarellate.
Io, che inciampo pure a ballare l'Hully Gully, mi ostinavo ad andare avanti anche se usavo sempre il piede sbagliato, muovevo sempre il braccio opposto; mentre Oris, molto più musicale, seguendo meglio, assumeva un colorito sempre più nefasto, molto simile al ravanello, che contando che di solito è una bambola di porcellana che ha mangiato troppi latticini, faceva davvero impressione.
«Simo pazzi? Guardate che potete morì se 'nnate avandi! Altro che sudate carte
Quando ci ha fatto stendere a terra, la mia esofagite si è fatta sentire: ho guardato Oris, Oris ha guardato me e ha capito che mi stava venendo la nausea perché non posso essere distesa senza un sostegno per la testa.
«Ti prego, non vomitare», mi ha detto.
«Soffrirei troppo nel non poterti riprendere con l'iPhone. Lo sapevo che dovevo portarmelo!»
La sorellanza è un amore profondo, si sa.

Grazie alla disambiguazione su Wikipedia, Leopardi è tornato indietro da gag, scena umoristica a GAG, sequenza di esercizi di fitness, io ho finalmente bevuto un po' di Estathè e mi sono salvata.
Potevamo morire, ma non siamo morte. Oris ci ha messo tre ore a tornare del suo colorito naturale e non ci siamo dette del disagio vissuto fino a quando non abbiamo incontrato il Pilates, ugualmente faticoso, ma molto più consono alle nostre peculiarità.
«Qui mi sento più a mio agio», mi ha detto Giacomo. «Te posso pure legge' le poesie, mentre mantieni la posizione...»

«Pezzetta, lo sapevi che abbiamo più di settecento muscoli nel nostro corpo?»
«No»
«Io e Iris ne usavamo meno di un decimo, calcola che tutti gli altri ci bruciano»
«E quindi?»
«Puoi lavare tu i piatti?»

Il Pilates incoraggia l'uso della mente per controllare i muscoli.
Oris utilizza lo scoramento dei muscoli per controllare la mente.
Pezzetta lava i piatti e io, con molto probabilità, mi ritroverò a «provare» un corso che si chiama Fit burlesque.

Ha sempre più armi contro di noi: lei è l'imperatrice del mondo. 

lunedì 2 settembre 2013

Indomite thèssere

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Quando ho scritto il mio ultimo post, a luglio, pensavo che mi sarei buttata tra le grinfie di quest'estate con spavalderia, che non avrei speso un pensiero uno per le preoccupazioni quotidiane che mi avevano afflitto durante il terribile nugolo di mesi di questa prima metà d'anno. Avrei scoperchiato le onde, bevuto Estathè e rinvigorito la pigmentazione della mia pelle, lasciando danzare la melatonina verso lidi a me più consoni rispetto all'opaco olivastro che mi regala la mia reclusione cittadina.
Niente poteva andare storto.
Già. Niente.

Questo pensiero di quieto ottimismo, lo devo imputare al mio amico Seitan, già detto Ukulele che, dopo che Mark Zuckerberg ha cancellato tutte le nostre chat per contenuti pericolosamente tristi, si è licenziato, è diventato vegano, ha deciso di andare via dall'Italia ed è sorprendentemente diventato una vocina positiva nella mia testa.
«Mo, basta. Famola finita co' sto mood emotivo da 'voglio rimpinguare le tasche di un cazzo psicanalista a caso'!».
Mi ha convinto.
Niente. Poteva. Andare. Storto.
Non come quella volta che mi sono messa a succhiare una biglia di vetro perché ero sicura che tutto, in fondo, fosse masticabile, e quella mi si è incastrata in gola e sono quasi morta.
«Iris, le tessere del domino non sono biscotti. No, non sono il negativo dei pan di stelle»
Questa voce fin troppo realista è di Oris, invece, di parecchio tempo fa, in quel mio periodo confusamente sinestetico, durante il quale lei smazzava carte da poker che nemmeno una croupier e io mangiavo scontrini che manco un evasore totale.

Quando ho scritto il mio ultimo post, non sapevo che il giorno dopo mi sarei svegliata strana, con un groppo in gola e che quel groppo ce l'avrei avuto per i successivi venti giorni, durante i quali, non avrei scoperchiato Estathè o bevuto onde, ma ripetuto ossessivamente: «Ho sputato sangue», in un senso troppo poco lato per essere motivo di orgoglio.
Inutile dire che io ho pensato fosse la tubercolosi, una cosa che mi avrebbe fatto sentire molto più letteraria di quanto potrò mai essere.
Inutile dire che tutti mi hanno giudicato con un: «È colpa dell'Estathè!».
Inutile dire che è stata tutta colpa delle tessere del domino.

Le tessere del domino, infatti, non sono biscotti, sono ore, giorni, mesi, sono pezzi di tempo, sono la maniera in cui ci muoviamo all'interno della nostra vita. Ognuno ci gioca come vuole. Alcuni costruiscono lunghe code sfavillanti, figure che partono dal geometrico per arrivare all'artistico. Altri incastrano sezioni di pallini in serpenti bidimensionali con uno spiccato senso matematico. Certi, lasciano tutte le tessere nel sacchetto.
Io, a quanto pare, inanello coreografiche catene di sfiga che nemmeno a programmarle sarebbero così perfette.

Riassumerei il mio agosto nei seguenti punti:

  1. Sputo sangue.
  2. Torno a casa per andare dal mio medico di fiducia indossando una maglietta troppo larga, quindi alla stazione un'ape di quattro centimetri di quelle pelose mi si infila sotto la maglietta e mi punge pancia e mano.
  3. Al pronto soccorso scopriamo che non sono allergica, ma quella stronza cicciona (prontamente ammazzata da mia madre con una raccomandata) mi lascia un dolore immenso per i successivi due giorni.
  4. Il medico dice che, come al solito, è l'esofago, ha attaccato la faringe, facendola sanguinare (no turbecolosi, no party).
  5. Dieta («No, non fa niente che voi vi mangiate la frittura di pesce», «No, grazie, non posso bere nulla», «No, cazzo, non è colpa dell'Estathè»).
  6. Trattative con il medico: «Posso bere qualche Estathè?» «No» «Lei non capisce, io sono intollerante al latte! Devo fare colazione con l'acqua calda?» «Uno, ne può bere uno» «Uno? Ma è estate! È Sta Thè!» «Io credo che lei non voglia guarire».
  7. Fiducia mal riposta: impellente necessità di cambiare medico.
  8. Sotto l'ombrellone: io, un libro e Noremifa, una musicale alternativa al Gaviscon che mi procura delle macchie sulla pancia che mistifico dicendo a mia madre «No, non ti preoccupare, ci sono partita da Roma».
  9. Blocco intestinale causa dieta («A questo punto era meglio mangiare la frittura di pesce», direbbe quel burlone del mio medico).
  10. Rash cutaneo sulla fronte («Che bella pelle che ti fa il mare!»).

Potrei continuare, ma mi fermo perché dieci tessere mi sembrano abbastanza per dire che dopo che, a luglio, ho fulminato tutto ciò che di elettronico possedevo e che, ad agosto, ho resettato il mio apparato gastrointestinale (per inciso: sto facendo ancora la cura e sono intrattabile), non mi aspetto grandi cose da questo settembre.
Ma siccome voglio essere fiduciosa, ruberò la voce a un amico bandito (che stava parlando con Oris e non con me, quindi è un vero furto): «Bisogna chiudere questa stupida estate e iniziare una nuova stagione. La sorte ce lo deve. Ho bisogno di tornare al 2004 per incontrare certi apici di malinconia».
Se volete avere notizie di Pezzetta, l'ultimo suo avvistamento è stato su Monte Miletto: ha pensato di scalare 2050 metri con le Clarks fino a che, perculato da due ornitologi (stavano cercando un Piviere Tortolino e hanno trovato Pezzetta, pensate che sfiga pure loro, poveracci), ha comprato 90 euro di scarpe da trekking e ci ha telefonato con un attacco di dispnea talmente acuto che sembrava calabrese.

Quando voi postavate su Facebook le foto strafighe della vostra vacanza, sappiate che io brindavo a voi con il mio musicale Noremifa che mi ha dimostrato che, alla fine, non tutto è commestibile, visto che quell'antiacido, sia alla vista che al gusto, sembra uno di quegli shampoo monouso che ti danno in albergo.
Però, almeno, grazie a lui, mi sono sentita un po' in vacanza anch'io.