Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

venerdì 25 ottobre 2019

Thèrminologia emotiva


Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Nel corso degli ultimi anni, il mio vocabolario sentimentale si è ampliato e così, molto spesso, nella mia cucina (che, come è noto, è anche la stanza dove accolgo e cerco di sviscerare molteplici e diversificate questioni amorose di amici e conoscenti), apro uno dei miei quadernoni e, mentre Giaris, Lorelai, Draco Malfoy o Oris mi raccontano cosa gli è successo, io scorro la lista dei nuovi termini imparati, bevo un sorso di Estathè ed elargisco la mia sentenza.
«È un chiaro caso di ghosting». «Ti devi arrendere al fatto che si tratta di benching». «Stiamo per entrare nella cuffing season. Non sei innamorata, è solo situationship». «Sei chiaramente affetta da birdboxing». «Te lo dico: stai facendo breadcrumbing».
Lo so: sembrano supercazzole, soprattutto in bocca a me, che se sento qualcuno che dice «scannerrizzare» invece di «scansionare» svengo, ma non ci posso fare niente se tutta la nuova guida amorosa alla digitalizzazione dei sentimenti è foreing e io sono diventata la Cambridge Analytica delle relationships. L'inglese, dopo essersi preso la terminologia della politica, dell'informatica, del business, del fashion, del web, dei social network e di molte altre cose, si è preso pure il lessico dell'amore 2.0. Ormai, la sensazione è quella di essere costantemente bloccati nel livello «Stronzi in love» di Duolingo e di non avere abbastanza risorse per superarlo, quindi per sopravvivere in questa giungla qualcosa si deve pur fare e quella cosa è aprire un quadernone, prendere appunti e imparare.
Per esempio, se esci con una persona e poi quella sparisce si dice ghosting; se dopo essere sparita ti guarda le stories di Instagram e ti fa qualche sparuto like su Facebook vuol dire che ti sta facendo orbiting (ma se dal ghosting all'orbiting passa molto tempo, allora ci troviamo di fronte allo zombeing). Se invece la persona c'è, rimane, ma non si impegna, ti manipola dicendoti che prima o poi ti farà giocare ma continua a lasciarti in panchina, devi barrare la casella del benching. Se l'altro (o l'altra) si applica il minimo indispensabile per mantenere vivo il tuo interesse e nutrirsene, dandoti attenzioni come briciole di pane, allora sei Gretel (o Hansel) e quello che sta succedendo si chiama breadcrumbing. Se invece entri in una relazione solo per circostanza, stai facendo situationship; se la relazione rimane isolata e segreta allora è stashing; se continui a non vedere quanto l'altra persona sia orrenda allora è birdboxing... E così via.
Folle? Abbastanza, sì. Però il fatto è che il dizionario delle nuove forme di crudeltà emotiva (le chiamano così gli psicologi, non io) andava aggiornato e pure noi. E così io faccio questi corsi di aggiornamento individuali che, da quando è arrivato Ottobre e l'autunno ha iniziato a farsi spazio nelle nostre giornate, sono diventati molto richiesti: la mia cucina è affollata, l'Estathè è sempre di meno e non fanno altro che affastellarsi dati amorosi da scandagliare e capire. Il motivo chiaramente è che stiamo entrando nella cuffing season, che è un periodo di tempo che va da ora a Febbraio, in cui anche se sei normalmente e felicemente single, ti scoppia questa voglia irrefrenabile di entrare in una relazione perché fa freddo, gli strati di vestiti fanno la guerra alla libido, sono ricominciate tutte le serie tv, fuori piove, il divano è invitante e quindi si finisce per ammanettarsi (cuff, in inglese, vuol dire manette) alla prima persona di merda che si incontra e quindi poi si ha bisogno di venire nella mia cucina a guardarmi bere Estathè ed elargire sentenze.

Devo dire che con le relazioni degli altri sono molto brava: è facile parlare con l'amore quando quell'amore non è il tuo. L'amore degli altri si fa vedere, mentre i tuoi sentimenti con te, al massimo, mugugnano, borbottano, frignano, parlando una lingua che non capisci.
Con me, l'amore, quando dobbiamo avere a che fare, squittisce.
«Squit squit», mi dice e allora io cerco di personificarlo, per poterci interagire. Mi immagino che sia Jack Pearson di This is us oppure Abe Weissman di The Marvelous Mrs. Maisel – ho già detto che stanno ricominciando le serie tv, vero? – ma lui niente, resta un topo e mi fa «Squit squit» in faccia, come se il fatto che non ci capiamo fosse tutta colpa mia. Ma io lo so che non è colpa mia, è colpa di come l'amore si è allegorizzato nella mia vita, attaccandosi a una scena di tanto tempo fa che coinvolge mia madre e la sua fobia per i topi.
Avevo sei anni e stavo da mia nonna, mentre mia madre era andata a trovare queste sue amiche vicine di casa. Avevo pianto talmente tanto per raggiungerla che, alla fine, nonna Berta, estenuata, mi ci aveva portato. Mia madre era uscita sul pianerottolo per aspettarmi perché le vicine abitavano al terzo piano di un palazzo e, quando ero sulla rampa per arrivare al secondo piano, si era accorta che tra me e lei c'era un grosso ratto, accovacciato al centro di uno scalino. Non sapendo che fare, mia madre ha iniziato a urlarmi di stare ferma e di scappare, di non muovermi e di correre e altre cose sconclusionate e contraddittorie con una voce talmente acuta che ha finito per disorientare anche il ratto che, senza più capire dove fosse, è caduto nella tromba delle scale, sfiorandomi la faccia.
Quindi io quando penso a cosa mi ha sempre fatto l'amore nella vita questo vedo: un topo che squittisce, si confonde e poi cade nella tromba delle scale, sfiorandomi la faccia. Io ci provo a parlarci, mi impegno sempre, ma quello dice solo «Squit squit» come se significasse tutto. Ho pure cercato su Duolingo – dove insegnano perfino alto valyriano e klingon – ma niente, questa lingua topesca non si può imparare.
E così io finisco sballottata tra gaslighting e submarining, tra textrelationship a microcheating, tra ghosting e orbiting senza colpo ferire.
«E quindi che si fa?», mi chiedono amici e conoscenti quando elargisco la mia sentenza e do un nome a quello che qualcuno gli sta facendo.
«Squit squit», risponde il topo al posto mio e poi si butta nella tromba delle scale.

Le manipolazioni, i giochi psicologici, le sparizioni, le tattiche, l'attesa di rassicurazioni, le bugie, gli status incrociati, i like alle foto profilo, gli screenshot dei messaggi, i vocali, le reazioni alle stories. «Secondo te cosa intendeva quando ha scritto "Embé" e ci ha messo l'accento acuto invece di quello grave come si dovrebbe fare con il "perché" che invece sbaglia sempre?». «Perché nella lista delle visualizzazioni delle mie stories sta al secondo posto dopo mia madre? Vuol dire che va a guardare spesso il mio profilo?». «Io gli ho scritto alle 21.35, lui mi ha risposto alle 02.03: quando ti scrivono di notte che significa?». «Ha postato un libro che gli ho consigliato io, non aggiungo altro».
Stiamo messi così? Sì, stiamo messi così. E non lo so cosa vuol dire, non so come si deve fare, non so come ci possiamo salvare. Ormai, tra cushioning e tuning, tra draking e R-bombing, siamo in un campo tale di irrazionalità che mi viene solo da pensare a mia madre quella volta che un topolino di campagna è entrato in casa nostra e lei, urlando, è scappata in veranda ed è salita con un balzo su un angolo di una panchina di plastica, ribaltando la panchina e se stessa nel tentativo di salvarsi.
«Squit squit», mi ha detto il topo, guardandoci con compassione.
«Embè?», gli ho risposto io, «Ma si può sapere che diavolo vuoi?».

Stabilire i termini di una relazione è sempre un affare difficile, per mille motivi diversi – resistenza alle definizioni, insicurezza sui sentimenti, difficoltà a fidarsi, strani condizionamenti sociali. E poi c'è questo fatto che «stabilire i termini di una relazione» contiene, oltre alla temutissima parola «relazione», anche la più che ambigua parola «termini». Termini, plurale di termine, vuol dire sia definizione di spazio e di senso che limite, confine, punto estremo di qualcosa, fine corsa, conclusione, compimento; ma non solo, vuole anche dire vocabolo, elemento di realtà, locuzione che descrive un oggetto – per non dire che, se abiti a Roma, termini ti fa pensare pure alla stazione ed è subito caos, confusione, garbugli per arrivare dall'uscita della metro A al binario della metro B1.
«E quindi che si fa?», insistono i miei amici e conoscenti, in cucina, mentre io giro le pagine del quadernone per prendere tempo, fingendo che, da qualche parte, mi sono scritta pure una soluzione. Ma la verità è che io non lo so: so le domande, so le parole giuste, metto gli accenti per bene e non sbaglio mai l'apostrofo, però le risposte non le so.
La mia amica Linari dice che ci si deve disintossicare, mi ha regalato un vasetto di argilla ventilata e mi ha detto di metterne un cucchiaino in un bicchiere e poi di farla stare tutta la notte a depositare: per un mese, ogni mattina devo bere l'acqua al netto dell'argilla che rimane sotto; ma io mi sono sbagliata, l'ho bevuta dopo dieci minuti di infusione e quindi mo chissà che ho combinato.
La mia amica sciamana mi ha detto che devo trovare il mio animale di potere e che secondo lei è un volatile, come il suo, quasi sicuramente una rondine, ma io già lo so che, se faccio il viaggio per cercarlo, mi ritroverò di sicuro in qualche anfratto di topo, in qualche tana arcigna a sentire «Squit squit», senza risolvere niente.
Draco Malfoy si è fatto crescere i capelli e adesso va in giro con il codino, mettendo in grande difficoltà la nostra amicizia, ma nemmeno questo è servito.
Quindi, non so: non so come si sopravvive al presente.

L'unica cosa che so è che qualche mese fa, entrando nella cantina di nonna Berta, mia madre ha trovato un topo: lo ha descritto come un gigante ratto malefico, ha urlato, ha corso, si è disperata davanti agli occhi serafici di mia nonna che la guardava come se avesse la risposta.
E ce l'aveva? Sì, ce l'aveva.
(vorrei dirvi che per scrivere quello che sto per scrivere nessun animale è stato maltrattato ma non è così, quindi andate avanti solo se ve la sentite)
Non potendo sopportare che mia madre fosse così sconvolta da quell'animale, mia nonna ha messo una trappola per catturarlo e quando lo ha catturato lo ha preso e lo ha immerso in una vasca che conteneva varechina per eliminarlo e lasciare pulita la trappola se dovesse esserci di nuovo necessità. Quando ce l'ha raccontato l'abbiamo guardata come se fosse la più feroce serial killer mai vista, ma lei è rimasta placida.
«Ognuno si deve difendere come crede», ci ha detto.
Insomma, oltre all'argilling, allo sciamaning, al codining, sappiate che esiste pure il nonnaberting. Non so cosa potrebbero dirne gli psicologi in quanto a crudeltà, ma se provate a metaforizzare, forse una morale c'è, amici.
Chi di ghosting ferisce, di nonnaberting perisce.
Quindi, vediamo di comportarci tutti bene.

domenica 19 maggio 2019

Quanto è antiesthètico soffrire per amore?


Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

«Nikolaj» è la parola che sento più dire da mesi. «Nikolaj, torna da me». «Nikolaj, ti amo». «Nikolaj, non ci dovevamo lasciare». Siccome ne sono praticamente sopraffatta, oramai non faccio altro che dirla anche io. «Nikolaj», sussurro tra me e me prima di andare a dormire: «ma tu che ne dici dell'ultima puntata di Game of Thrones?». «Nikolaj», mi interrogo dopo aver chiuso la porta di casa: «ma, alla fine, l'ho staccato il ferro da stiro?».
È tutta colpa della mia amica Lorelai che soffre per amore in maniera talmente melodrammatica che certe volte mi preoccupo davvero, come se l'amore fosse una cosa seria. Invece non lo è, come tutte le cose importanti della vita.
Per questo, mentre Oris cerca di creare uno schema per classificare scientificamente le mutazioni zoomorfe che vede accadere intorno a sé a causa delle beghe sentimentali, io ho deciso di sputtanare le acque confuse delle mie tragedie amorose, cercando di dimostrare come la messa in scena di quello che proviamo appartiene al comico, se la guardiamo bene. Quindi, mi sono data da fare e mi sono aperta, arrivando perfino ad accettare un appuntamento al buio. Ma andiamo con ordine.
«Sai chi andava sempre con ordine?».
«Non mi viene proprio in mente nessuno, Lorelai».
«Nikolaj. Nikolaj andava sempre con ordine...».
«E allora faremo come faceva Nikolaj, così almeno sarai un po' contenta».
«Niente può alleviare questo dolore che mi affligge...».
«...tranne Nikolaj».
«Esatto. Tranne Nikolaj, quanto lo amo».
È noiosa, lo so, ma lo siamo tutti quando arriviamo a certi livelli terminali e lo stadio Nikolaj lo è, sai di esserci arrivato quando ossessioni anche gli amici degli amici che hanno la malaugurata idea di fare conversazione.
«E tu cosa fai nella vita, Lorelai?».
«Mah, dipende. Oggi pomeriggio ho pianto per due ore, poi mi sono addormentata».
Praticamente, dopo lo stadio Nikolaj, c'è solo lo stadio Brienne di Tarth che, per chi non conosce Game of Thrones, è una guerriera fortissima che, a un certo punto, quando decide di perdere la verginità, invece di darla al bruto roscio Tormund, si concede a Jamie Lannister, un biondino che impiega varie serie per uscire dall'incestuoso innamoramento per sua sorella Cersei – che, a parte essergli stretta parente, è pure di una crudeltà ingestibile – ma, siccome le ultime stagioni delle serie tv sono spesso drammaturgicamente insensate (come gli ultimi spari delle storie d'amore), alla fine, dopo lungo peregrinare, Jamie torna da Cersei.
Lo stadio Brienne di Tarth è quando da fulgida amazzone diventi un'opaca frignona in camiciola lunga nera che, di notte, fuori da un castello, struccata, si strugge a piangere l'abbandono di uno a cui, tra l'altro, manca pure una mano.
Nikolaj, da quanto ne so, ce le ha tutte e due, quindi confido che Lorelai non arriverà a questo punto.

Comunque, andando con ordine, la prima cosa che devo dire è che anche io sto soffrendo per amore – come d'altra parte stiamo tutti sempre soffrendo per amore – ma, a differenza di Lorelai e di Brienne, io preferisco riderne, anche perché sto soffrendo per la solita storia scema il cui unico senso è quello di dimostrami che la mia vita sentimentale non è altro che una barzelletta emotiva, pullulante di personaggi archetipici del più bieco racconto umoristico. E così, dopo un bipolare, uno stalinista, uno stregone e un violinista – solo per dirne alcuni – è arrivato il momento di soffrire anche per un cattolico. Tutti i personaggi archetipici sono dei mitomani narcisisti, ma ogni personaggio archetipico è mitomane narcisista a modo suo. In particolare, il cattolico, nel corso del tempo, ha compiuto diverse stravaganti gesta per cui Oris, man mano, lo ha regredito tassonomicamente, di categoria in categoria inferiore, e per cui io ho sempre trovato qualcosa di cui ridere.
E infatti quando mi ha convocato per un «incontro diplomatico tra le nostre due nazioni così diverse» e poi mi ha presentato una specie di contratto, con «mission per questo secolo» e «ferree regolamentazioni», che io ho deciso di non firmare, non mi sono dovuta nemmeno impegnare per trovarlo esilarante: eravamo in una gelateria che non vendeva Estathè, dalla radio Lady Gaga stava cantando Shallow e, sul telefono, brillava un messaggio di Fandango che mi diceva che l'uscita de «La botanica delle bugie», il mio nuovo libro, sarebbe stata rimandata di una settimana, visto che il macchinario di stampa si era rotto proprio in quel momento, mentre le mie pagine erano lì in mezzo.
«Credo che, per qualche strana compensazione catto-mentitrice, Bradley Cooper abbia rotto il mio libro», ho detto a Oris, quando sono tornata a casa e ridevo sguaiatamente di quell'ennesimo addio col cattolico.
«E invece io credo che sia tutta colpa di quell'Amphiprion ocellaris e della sua dannata pinna atrofica. Capisci che da carlino brachicefalo, il tuo cattolico è appena passato allo stato di pesce pagliaccio? Nemmeno l'intero team di sviluppo progetti della Pixar riuscirebbe a inventarsi questi uomini che ti scegli. Eh, ma prima o poi ci vado io alla ricerca di Nemo e poi vediamo che succede...».
«E Nikolaj, invece?», ha piagnucolato Lorelai.
«Io con te nemmeno ci parlo. Questa tua scelta antiestetica di soffrire per amore come se ti mancasse l'aria per respirare mi inquina la vista».
«Guardalo, quanto è bello in questa storia di Instagram...».
«...».

Una volta, per amore, ho perso 10 chili in una settimana e mia madre, per farmi smettere di vomitare, mi ha fatto registrare 400 fatture per una casa di riposo: credo che sia stato quello il turning point, quello e l'essere sorella di Oris che, per amore, non ha sofferto mai. Appena presento qualcuno a mia madre, lei, tra le prime cose che racconta, c'è la storia di come siamo arrivate alla registrazione delle 400 fatture per la casa di riposo e, ogni volta, la scena di me che vengo prelevata dalla mia camera da letto e mi faccio quattro piani di scale in pigiama, con il computer sotto il braccio e il filo della presa che sbatte a ogni scalino come se fosse la coda della mia vergogna, fa sempre così tanto ridere che, ogni volta, mi è impossibile non pensare che è proprio quando è più sgraziato che il mal d'amore ti aiuta a sopravvivere. Per questo, io cerco di sostare perennemente nello stadio Casa di riposo.
Eppure questo non mi ha salvato dal ritorno del cattolico che, dopo avermi chiesto scusa per la proposta del contratto diplomatico e aver finto di aiutarmi nel placare le mie ansie per la pubblicazione del libro, una settimana prima che «La botanica delle bugie» uscisse – e quindi più o meno nel giorno in cui sarebbe dovuto uscire se non avesse rotto il macchinario di stampa – lui è sparito nel nulla, insieme a Bradley Cooper, a Jamie Lannister...
«E a Nikolaj!».
«Certo!»
e a Nikolaj – diomio, che pazienza. Nella personale sistematica di Oris, a quel punto, è diventato una Drosofila melanogaster – ovvero un moscerino della frutta.
Quello è stato il momento in cui, per resistere, per insistere e per dimostrare la mia tesi, mi sono aperta, lasciando spazio di manovra a quell'umanità che si trova sulle chat dei social network e che ingrassa i meccanismi di ritorno del tuo passato che, quando vuoi ridere delle tue tragedie amorose, sono una risorsa. Ovviamente, mi sono trovata di fronte alla solita corte dei miracoli che, oltre a mostrarmi quante colpe io abbia e quante scelte sbagliate io abbia accumulato nel tempo (altro che analisti, basta guardare la cronologia dei messaggi privati), mi ha anche fatto sentire un po' assolta: io sarò pure un cazzo di magnete che beve Estathè e dà udienza ai peggiori frequentatori dell'esistenza umana ma, se siamo tutti arrivati a questo punto, qualche responsabilità ce l'hanno pure loro, questi rottami ferrosi e scalcagnati che non capirebbero come funziona il proprio apparato emotivo nemmeno se fosse montabile come un mobile Ikea.
E allora arriva quello che, mentre fa il cammino di Santiago, si ricorda che sono due anni che non ti chiama e quindi torna alla carica con scuse e proposte di viaggi insieme pure se tu rispondi sconcertata alle sue scuse, visto che sei convinta che quando lo avevi conosciuto era fidanzato con un uomo e non capisci proprio cosa possa volere da te. E poi arriva l'altro, quello seduttivo come un barattolo di crusca, che è fidanzato ma pensa che tu non lo sappia e allora smiciona con te per farsi sistemare l'ego un po' spettinato dalla quotidianità di coppia e poi quando lo vedi non ce la fa nemmeno a guardarti in faccia perché va bene tutto, ma comunque non ti sembra di essere un po' aggressiva con questo tuo pettine appuntito e inquisitore? E arrivano i: «ti avrei voluto baciare, ma abitiamo troppo lontani», «mi fai un pochino di terrore, ma possiamo lavorarci», «l'Estathè è troppo dolce, non so come fai a berlo» ed eccetera, eccetera.
E allora come si fa a non ridere? Come? Quando, oltretutto, alla fine, squilla pure il telefono e un tipo mai sentito ti dice: «Ciao, mi ha dato il tuo numero Draco Malfoy, mi sono trasferito da poco a Roma e volevo chiederti se ti va di berci una cosa insieme». Se ci si mette pure Draco a sceneggiare questa grottesca e perpetua commedia sentimentale, con la sua dialettica marxista e quella dei suoi amici, come si fa?
«Dovresti farti Tinder», mi ha detto un altro, a caso.
«Certo, ci manca solo Tinder», gli ho risposto io.

La settimana scorsa, mentre messaggiavo con Lorelai su qualche cosa inerente Nikolaj che ora non ricordo, ho incontrato il cattolico: ci siamo visti per caso, abbiamo incrociato gli sguardi, e lui ha fatto finta di non conoscermi. In passato, era già successo che non mi rivolgesse la parola ma almeno, ai tempi, aveva reagito alla mia improvvisa comparsa con uno spasmo muscolare che gli aveva fatto chiudere una palpebra a salvare le apparenze, quasi ammiccasse un occhietto come cenno di saluto; stavolta, invece, ha abbassato gli occhi come se non mi avesse mai visto in vita sua.
«Ormai è imperdonabile, Iris. Lo sai, vero?».
«Sì, lo so, Oris».
«Si è trasformato in un Helicobacter pylori, un batterio spiraliforme, un organismo unicellulare nocivo e tossico, che noi dobbiamo solo puntare ad eliminare dal tuo muco gastrico. Altro che sole, cuore e amore, qua solo noia, infezioni e accolli».
E così, la settimana scorsa, ho accettato l'appuntamento al buio con l'amico di Draco Malfoy, un leninista con la cravatta rossa e un completo gessato. Quando gli ho chiesto cosa faceva di lavoro, lui mi ha guardato intensamente e mi ha detto serio: «Beh, sto preparando la rivoluzione».
La vita, l'amore, il dolore, la rivoluzione: è sempre tutto così sgraziato da essere meraviglioso. Pure Game of thrones.


«Senti, adesso che hai finito di scrivere e di ridere possiamo parlare un po' di Nikolaj, per piacere?».



martedì 22 gennaio 2019

Inthèrvention


Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

È più o meno da un mese che mia madre continua a parlarmi di astrologia e del fatto che tutti gli oroscopi dicono la stessa cosa: per il Leone, questo 2019 sarà un anno meraviglioso. Siccome non riesco a immaginarli nemmeno lontanamente i parametri di questa meraviglia, tendo a risponderle con poco entusiasmo, bofonchiando che non lo so, che non mi fido, che secondo me quest'anno non sarà per niente incredibile, a meno che non mi prenderò un cane.
«Ma smettila con questa storia del cane», mi risponde lei: «pensa invece che da marzo avrai delle grandi soddisfazioni lavorative e che, già nei prossimi giorni, l'amore verrà a bussare alla tua porta. Non essere sempre negativa...».
«Mamma, sai come si è chiuso il 2018? Con me che, ingenua e positiva, partecipo a una tombolata a casa di Silvis e, per colpa di un terno, mi ritrovo a cantare Non amarmi in duetto con uno sconosciuto davanti a 30 persone munite di telefonini che mi riprendono. Avevo fatto terno, doveva essere una cosa bella, una vittoria, ma quelli, invece di riempirmi un flûte di Estathè, mi hanno costretto a frignare: "Dimmi perché piangi..." con un manico di scopa a mo' di microfono. Poi c'è stato l'applausometro e, grazie alla mia pubblica umiliazione, mi hanno consegnato il premio: una clessidra con sabbiolina glitterata che ora sta sulla mia scrivania a ricordarmi che, se mi voglio salvare, non devo uscire, non devo socializzare. Se l'amore bussa alla mia porta, mamma, io non devo aprire, devo aizzargli contro il cane che non ho...».
E allora è tutta una pioggia di «Ma Paolo Fox ha detto...», «Simon & the Stars ha scritto...», «E Giove in Sagittario...», «Urano in Ariete...», «E guarda che bel sole che c'è oggi...», «Branko dice che devi metterci grinta...», eccetera, eccetera.
È più o meno da un mese che andiamo avanti così e il bello è che mia madre non crede nell'oroscopo in generale, crede solo nel mio e solo quando è positivo, quindi il bombardamento astrologico in atto è un suo mero tentativo di dare un senso, una costellazione di appartenenza, ai picchi di ridicolaggine della mia vita che, il più delle volte, sembra scritta da quelli che confezionano i biscotti della fortuna, che me la servono in foglietti lucidi, pieni di refusi e metafore insolubili.

È chiaro che sarebbe molto comodo credere a questi oroscopi, anche perché pure Oris è Leone, e Frederick e Marco Polo e Iaia e Francis e Ukulele e tanti altri; quindi, se questa meraviglia di anno fosse vera, vorrebbe dire che farei parte di un corteo trionfante di amici, tutti poveri cristi nati in estate che non hanno mai potuto festeggiare un compleanno a scuola e che risorgerebbero con me dalle ceneri delle loro feste sudate e semivuote per danzare e cantare al ritmo di lavori, amori e gioie di ogni tipo.
Ma come? Come posso crederci? Come può Roma diventare di botto il paese della Cuccagna, la contrada Bengodi, l'Eldorado dei Leoni di ogni possibile decade? Per quanti sforzi io possa fare, per quanto mi possa impegnare, ci vuole troppa fiducia.
Tra l'altro, quest'anno, che è iniziato da soli 22 giorni, ha già visto: una perdita di gas che ci ha costrette a sfondare il muro della cucina; la porta di casa che ha preso ad aprirsi e non aprirsi a suo piacimento e io e Oris che siamo rimaste fuori di sabato notte – fino a che, a forza di scassinare, non ho offerto una falange in dono al Signore dei Chiavistelli e quello ci ha permesso di entrare –; e infine, la malaugurata idea che ho avuto di chiedere a Oris di lanciarmi un cardigan dal balcone perché ero già uscita, ero in ritardo e avevo sottovalutato il freddo. Siccome viviamo al secondo piano, mi sembrava una pratica semplice, invece il mio cardigan preferito si è agganciato con un bottone a un ramo e un picco di ridicolaggine è stato immediatamente raggiunto con me che, abbracciata a quell'albero quantomeno centenario, cercavo di scuoterlo per far cadere il cardigan.
Mi guardavano tutti: i passanti, il signore della pizzeria, il proprietario dell'alimentari, la gente dalle finestre. Dal canto suo, Oris continuava a entrare e uscire con palle da tennis, corde, quadri, qualsiasi cosa le sembrava potesse essere lanciabile sul ramo, ma io la dissuadevo spiegandole che qualsiasi cosa avesse lanciato poi sarebbe arrivata in strada a far danni. Ovviamente, alla fine, mi ha proposto di rinunciare e di andare a comprarne un altro di cardigan, ed è stato in quel momento che ho sentito distintamente la voce di Francesca Alotta che cantava «Sola in mezzo a questo cielo non lasciaaarmi...». E allora mi sono bloccata.

«Stai tranquilla, Francesca, non ti lascerò...».
«Non sono Francesca Alotta, deficiente. Sono Lilla, il tuo primo cane, quello che ti è stato portato via senza fornirti nessuna spiegazione, il traumatizzante bretoncino rompicoglioni».
«Oddio, Lilla, che mi hai ricordato... Un'altra cosa che posso rinfacciare ai miei genitori».
«Già. Ma, come puoi vedere, non sono qui da sola. Ci sono anche Lupetta, Léon, India, Sophie, Maratona, Tobia, Novecento, Lola, Pecu, Bach e tutti gli altri cani, tuoi o non tuoi, che hai amato e importunato nel corso della tua vita. Siamo qui per un intervention».
«Un intervention? Ma come? Una cosa tipo quella che fanno gli americani in cui gli amici, i familiari, la gente ti piomba in casa e ti parla di un problema che hai, facendoti piangere fino a che non ti convinci a curarti?».
«Sì, esattamente quello. Sai, il 2018 è stato l'anno del Cane per l'oroscopo cinese, quindi avevamo questa finestra, fino al 5 febbraio, per venire a parlarti e ne abbiamo approfittato...».
«Cioè, è stato l'anno del Cane e io vengo a saperlo solo ora che sta per finire?».
«Proprio questo è il punto...».
«Che poi mi piace questa cosa che, nello zodiaco cinese, ci sono tutti animali, c'è coerenza tematica, noi invece abbiamo Bilance, Gemelli, Vergini, una promiscuità formale davvero imbarazzante...».
«Senti, concentrati, non cominciare a divagare».
«Sì, scusami».
«Allora, non so come dirlo gentilmente: ma hai rotto il cazzo con 'sta storia del cane. Tu usi il cane per giustificare tutta la tua negatività, lo usi come desiderio inappagabile, come idea platonica, essenza metafisica, come se tutti noi, cani della tua vita, non fossimo mai esistiti e tu corra perennemente dietro a questo sogno astratto. È una cosa offensiva per noi e un potenziale disturbo psichiatrico per te, ma non basta. Recentemente hai anche iniziato a ingarbugliare tutti i tuoi pensieri intorno a questo concetto, tanto che dici delle cose, assumi degli atteggiamenti, mistifichi il tuo immaginario con l'archetipo della caninità. Guardati adesso, per esempio: continui a saltellare verso questo cardigan, manco fossi un pastore delle Shetland in una gara di Agility. Ma vuoi stare ferma?».
«Sto solo cercando di attirare l'attenzione di Oris. ORIS, ORIS! PROVA CON UNA SCOPA!»
«Ecco, e poi anche questo. Tu non fai altro che abbaiare, abbaiare e abbaiare...».
«Non sto abbaiando, sto cercando di comunicare con mia sorella...».
«Bau bau bau. Basta. Stai zitta o i vicini finiranno per incazzarsi e lanciarti contro qualche polpetta avvelenata. A cuccia! Sennò faccio partire gli ultrasuoni».
«Ti stai tanto agitando e manco mi sono messa a cantare. Quando canto, sembro un chihuahua a cui hanno pestato una zampetta...».
«Lo vedi? Subito con la similitudine canina. Non va bene, Iris. Allora, provo a spiegarti. Cane a faccia in giù alla lezione di Yoga: sì; dire a Oris "Hai visto che carino quel ragazzo della tombolata, sembrava un pointer": no. Muovere le zampe mentre sogni: sì; ringhiare al supermercato per ottenere l'ultima bottiglia di Estathè: no; covare istinti omicidi per i piccioni che ti cagano sul balcone: sì; essere il migliore amico di tutti gli stronzi che incontri: no».
«Va bene, ho capito. Non è così difficile».
«Fammi dire solo un'ultima cosa, Iris, la più importante: basta ossessionarsi per il carlino brizzolato, lo so che non ha fatto altro che scodinzolare, ma quello è un paraculo pigro, che non verrà mai a bussare alla tua porta...».
«Ma non è che vi ha mandati mia madre per quella storia dell'amore, del Leone, dell'oroscopo?».
«Ma di che parli? Noi seguiamo l'oroscopo cinese, là il Leone nemmeno ci sta...».
«Mah, mah... Quella è Chicca? La mia gatta di quando facevo le medie. Grazie che l'avete portata. Sono vent'anni che non ci vediamo. Ciao Chicca».
«Lasciala perdere, per piacere. Se stiamo incazzati noi, figurati lei».
«Chicca, non essere arrabbiata. Tra l'altro tu sei l'unica che mi può aiutare. Perché non sali su questo albero a recuperarmi il cardigan?».
«...».
«Daaai!».
«Lasciala in pace. Non vedi che la stai mettendo in imbarazzo?».

Spazientita e sempre più in ritardo, ho chiesto a Oris di invertire i nostri ruoli e di scendere giù ad afferrare il cardigan mentre io cercavo di farlo cadere e giuro che, quando ha preso le scale saltellando, a me è sembrata una cockerina allegra e spensierata, con le orecchie lunghe di capelli color miele, e mi sono detta che forse i miei cani avevano ragione. Ho afferrato la scopa con rabbia e mi sono mossa sgraziatamente fino a quando non sono riuscita a colpire il ramo: il cardigan si è sganciato e poi solo grandi corse, ululati di scuse e risate scomposte.
Mi sono detta che forse il cardigan era entrato in congiunzione con Venere, si era allineato con Giove, che magari era caduto per terra e i cani lo avevano sbranato. Mi sono detta che forse si era smaterializzato prima di entrare in conflitto con Saturno, con un asteroide o con le unghie affilate di Chicca. Ho sperato di poter leggere nel destino del cardigan una profezia per il 2019, per i nati sotto il segno del Leone, per gli amanti dei cani senza cani che molestano i cani degli altri, per chi abbaia alla bottiglia di Estathè quando si azzarda a finire, per chi comunque continuerà a cantare: «Non amarmi perché vivo a Londra».
Però, quando Oris mi ha raccontato che il cardigan era caduto in testa a un signore, che gli aveva coperto il cappello con le falde come un velo da apicoltore, che lei gli era saltata addosso urlandogli: «È mio! È mio!» e che, davanti al suo sguardo sconvolto, aveva aggiunto: «Ci scusi, era tanto che cercavamo di farlo cadere dall'albero», abbiamo riso così tanto da non capirci niente. Lilla, Léon e tutti gli altri sono scappati in branco dal loro stesso intervention e, a me, non è rimasto che chiamare mia madre.
«Mamma, hai ragione tu: sento che, in questo 2019, farò tombola».

E allora meglio che inizio a prepararmi, chissà per avere il premio cosa mi toccherà scontare.