Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

mercoledì 24 dicembre 2014

Letthère d'amore

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Prima di avere un computer, all'inizio degli anni duemila, io tiravo le fila di molti carteggi: aspettavo i postini, strappavo male le buste, bestemmiavo contro le Poste Italiane e alimentavo il falso mito di intingere le mie parole nell'inchiostro -grazie al fatto di aver comprato quella penna bic a piuma che vedete infilata nell'Estathè nell'immagine di copertina di questo blog. In un Natale di parecchi anni fa qualcuno mi regalò perfino un tagliacarte che sembrava un pugnale barocco, così che potessi sentirmi sempre più romantica e smettere di stracciare male le buste.
Da quando ho avuto un computer, nonostante una prova di resistenza iniziale, ho smesso di leccare francobolli e scrivere indirizzi: ho iniziato a curare i miei rapporti epistolari in maniera più diretta, più semplice e paradossalmente più intensa.
Non vorrei passare per una nostalgica perché non lo sono: è vero che quando Oris mi ha regalato il mio primo smartphone le ho detto «Grazie di avermi rovinato la vita...», ma posso ammettere con tranquillità che senza l'App RomaBus, mi sentirei una bambina perduta, un vettore libero, una forza non applicata.
Vivendo chiusa a riccio nelle mie confortevoli stanze, se non ci fossero Facebook, Gmail e Whatsapp non saprei assolutamente niente del mondo.

«Iris, quest'anno non ho ricevuto la tua letterina...»
«Babbo Natale, ti ho mandato dei messaggi vocali mentre ero a Torino. E' stato un mese confuso questo, non ho avuto il tempo di stilare una lista di desideri...»
«Non capisco perché mi chiami Babbo Natale, Iris: io sono Fernando Pessoa»
«Ah, chiedo scusa. Forse è per questo che non ti sono arrivate le mie richieste, Fernando: non ho il tuo numero...»

In totale, ho mandato tre whatsapp vocali per Natale (lo so che è un'orrenda sineddoche questa, e che, visto il panegirico sulle lettere di carta, l'inchiostro e i pugnali barocchi, mi dovrei vergognare, ma non posso fermare io il progresso, non posso autoescludermi dalla possibilità di scaricare sul mio telefono iFrusta e scudisciare sonoramente la schiena di Pezzetta tutte le volte che finisce per fare quello che Oris gli chiede di fare):

  1. Prima di salire sul palco di Fahrenheit, in concorso per Libro dell'Anno (in quanto libro del mese di Novembre): «Babbo, ti prego, fa che io non vomiti addosso al cantante dei Tre Allegri Ragazzi Morti, pure se quel vestito da mammuth assorbirebbe tutto il mio conato senza conseguenze».
  2. Prima di arrivare a Torino, per andare a conversare con i ragazzi della Holden: «Babbo, non ti chiedo molto: fai che ci sia l'Estathè, fai che piova Estathè, fai che il Po si riempia di Estathè».
  3. A seguito della scoperta che anche Pezzetta, come Oris, ha stabilito un certo feeling con gli esercenti del nostro quartiere: «Babbo, una domanda: perché sono l'unica della famiglia che viene trattata male dai commessi del Conad? Ti spiego: l'omino del ferramenta a Pezzetta gli fa i buchi gratis per la pedaliera ogni tre giorni e il pizzaiolo gli regala due chili di pizza per Natale. Il fruttivendolo ha stretto amicizia solo con Oris e tutte le bariste di Roma le fanno i complimenti per i suoi capelli, senza contare che ho visto autobus fermarsi a incroci non segnalati su Romabus per farla salire. Perché uno sconosciuto mi sta rimproverando, minacciando di tagliare il mio bancomat solo perché non sapevo che i bancomat scadono e non mi ero accorta di averne uno nuovo nella cassetta delle lettere? Vedi che succede a non aspettare più i postini con ansia?».

«Iris, Babbo Natale non esiste»
«Fernando...»
«Io non sono più Fernando Pessoa, se mai lo sono stato, sono Ricardo Reis...»
«Ricardo, io te lo dico: guarda che questi del Conad, se scoprono la storia dei tuoi eteronimi, ti tagliano il bancomat»
«Ricardo? Alberto Caeiro vorrai dire...»
«Senti, io ti posso chiamare pure Bernardo Soares, questo non cambia il fatto che non hai ancora visualizzato il mio messaggio su Facebook in cui ti ringrazio per la benedizione di quella sala da thè sabauda nella quale alla mia domanda Avete del thè freddo? mi è stato risposto Sì, ma purtroppo solo Estathè. Può andare?»

Quando ha visualizzato il mio messaggio su Facebook, Fernando Ricardo Bernardo Alberto, era Àlvaro de Campos e mi ha scritto una poesia. Io stavo impacchettando i regali di Natale quando l'ho letta, in particolare un libro che doveva essere spedito. La poesia, famosa, è quella che dice che tutte le lettere d'amore sono ridicole, che non sarebbero lettere d'amore se non fossero ridicole. Quello che non mi ricordavo è che la poesia finisce con una parentesi:
(Tutte le parole sdrucciole
come tutti i sentimenti sdruccioli
sono naturalmente
ridicole)
Io, quando mi chiedono la pronuncia del mio cognome, rispondo sempre che sono sdrucciola. E in quanto ragazza sdrucciola, invisa ai commercianti, che per avere un antibiotico senza ricetta è costretta a spingere Pezzetta verso la farmacia scaricandogli contro iFrusta come se fosse un termometro, io mi sento molto ridicola.
Quindi ho preso l'antibiotico (che ovviamente gli hanno dato, a quel barbone di Pezzetta), ho scritto una lettera d'amore e l'ho messa in mezzo a quel libro che stavo impacchettando.
Poi ho chiesto a Oris e a Fernando Pessoa di andarmela a spedire.

«Sono entrata alla Posta, brandendo il pacco e urlando Fatemi passare, fatemi passare, ho una lettera d'amore qui... Tutti si sono fatti indietro, mi hanno lasciato spazio. Io ho compilato la raccomandata, mentre la folla rumoreggiava di attesa. Poi, quando l'impiegato ha lanciato il pacco nella cassa che stava per partire, è scattato l'applauso. Fernando ha recitato la poesia, un'anziana è svenuta, è partito un pezzo di Vecchioni e il mondo ha ricominciato ad avere un senso...»
«Speriamo che Babbo Natale mi ricambi, allora»
«Ma, poi, tutto questo casino della lettera d'amore era per chiedergli di farti passare il dolore al dente del giudizio, visto che non puoi prendere gli antidolorifici?»
«Sai, non ascolta i miei messaggi vocali su Whatsapp...»
«Che vecchio»


Countdown non ti temo. Duemilaquindici ti aspetto. Babbo Natale ti amo. 

martedì 18 novembre 2014

Di transfert e trasferthè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Durante questo mese fuori dal comune, per motivi lavorativi, non ho fatto altro che scrivere «Miao!» a padroni di gatti che mi parlavano per voce dei loro felini. Sembra assurdo, ma è così, e io non posso continuare a tenermi dentro questa bizzarra e ingombrante palla di pelo.
Miao! Sono Puffetta ma mamma Lea, la mia umana di riferimento, mi chiama Ciccia. Dici che è una questione di amore oppure dipende dal fatto che peso 14 kg?
«Puffetta, non costringermi a fare psicologia spicciola...», avrei voluto scriverle, «Dammi retta: passa dai croccantini all'Estathè» e invece credo di averle risposto: «SuperMiao, Puffetta! Sei splendida!», in preda a un feroce distaccamento da me stessa.
Quando ho saputo che il mio romanzo era il libro del giorno a Fahrenheit, mi sono detta: «È la fine, non sono lucida. Farò un casino...», quindi ho chiamato mia madre per essere rassicurata.
Mia madre, oltre a essere un motorino di avviamento della mia ansia, è la mia voce fuoricampo per eccellenza: quella che mi risuona nelle orecchie quando sto per comprarmi un qualsiasi capo d'abbigliamento nero corvino («Iris, non sarà troppa allegria?») o quando decido di non uscire per il terzo weekend di seguito («Se mi arriva una mail scritta dalla tua pecora di peluche Castellana, sappi che ti faccio rinchiudere io, ma stavolta in maniera definitiva...»).
«Il problema di questa diretta radiofonica non è tanto che non sei lucida», mi ha detto la mia umana di riferimento. «Il problema è 'sta vocetta gne gne gne: mi immagino mezz'ora di trasmissione a sentire gne gne gne...»
«Mamma, non so come farei se non ci fossi tu»
«Faresti comunque gne gne gne, credo...»

Grazie alla mancanza di Estathè patita nell'ufficio dei gatti e alla maniera in cui mia madre mi ha motivato a non essere troppo me stessa, ho avuto un tremendo calo di voce, subito prima della diretta; quindi, alla fine dei conti, sono risultata un po' rauca, ma quasi raffinata (nonostante questo, sono riuscita a rispondere a una domanda usando la parola disincrostante, giusto per continuare a barcamenarmi tra la mia figura di scrittrice e il mio ruolo di massaia che deve ricomprare il WC Net).

«Mamma, ti volevo dire che ora che ho finito questa cosa dei gatti, devo partire: faccio una specie di mini tour idraulico in Emilia Romagna per presentare il libro»
«Una trasferta, insomma», mi ha risposto lei, sfregandosi le corde vocali tremolanti sulla cassa armonica dei suoi meccanismi inconsci.
A mia madre ogni trasferta procura un transfert: le mille tappe lavorative di Oris non le hanno fatto superare questo trauma. Così, la sua mente procede in un viaggio emotivo che sposta i sentimenti che lei provava per me bambina (quando ero una cucciola scontrosa incapace di interagire con il mondo) e li appiccica sui sentimenti che prova adesso per me trentenne.
Quella del transfert è una disciplina olimpica molto in voga tra le mamme ansiose e poco concilianti: mia madre è campionessa mondiale di rimozione dalla sua coscienza della mia vera età, delle mie nuove (anche se tentennanti) capacità.
«Te lo dico prima, mamma: non chiamarmi tremila volte! Farò pure gne gne gne, ma non sono una bambina»
«Infatti non sei UNA bambina, tu sei LA MIA bambina»

Mamma sono sul treno. Mamma sono sempre sul treno, mi hai chiamato dieci minuti fa. Mamma, se ti dico che parto alle 12:28 e mi chiami alle 12:26 mi fai squillare il telefono mentre sto sistemando la valigia, può essere che non lo capisci? Sì, Frederick mi ha fatto trovare l'Estathè a casa sua perché qui in Emilia Romagna i bar sono un po' sforniti. Mamma, non è che sto sempre a cazziarti, è che sei una persona impossibile. Mamma, non ti ho risposto perché stavo salutando il mio amico Frederick che non vedo mai e, se vogliamo dirla tutta, mi hai pure interrotto il momento del distacco con questo dannato drìììn. Mamma, non dire che non vedo mai nemmeno te. Ah, non ti ricordi più se sono la tua figlia bionda o quella mora? Povere noi. Mamma, lo sai che Oris, al mio posto, non ti risponderebbe più? Mamma, ciao: sono sul treno. Guarda che non ti sto mentendo: sono sempre sul treno. Non faccio altro che prendere treni anche se tu fai di tutto per farmeli perdere.

Questa è più o meno la sintesi del mio tour di presentazioni: le parti salienti hanno una protagonista assoluta, che veniva annunciata da un temibile Drìììn.
E poi, a un certo punto, dopo aver fatto Roma-Bologna, Bologna-Rimini, Rimini-Bologna, Bologna-Rimini-Cesenatico e in attesa di fare Cesenatico-Rimini-Bologna-Roma, mi sono ritrovata di notte, da sola, in riviera, con il freddo, la grandine che mi aveva reso fradicia e quasi tutti i ristoranti chiusi. Mia madre mi aveva chiamato una volta di troppo e l'avevo minacciata che se mi avesse fatto squillare ancora il telefono l'avrei buttato in un canale.
La solitudine mi stava facendo quasi pentire della cosa, quando: drìììn.
«Papà. Oh, papà, dimmi. È successo qualcosa? Non mi compariva il tuo nome sullo schermo del cellulare da tredici mesi...»
«No, è che sono ancora a caccia e volevo sapere se tutto andava bene...»
«Ancora a caccia? Di domenica notte?»
«Eh, sì...»
[Intanto, su un'altra linea telefonica...
«Mamma, non ti capisco, se non parli più forte, non ti capisco. Ma ti assicuro che Iris sta bene, non la devi richiamare... Alza un pochino la voce. Dai!»
«Oris bhhhhrhssbbsb tuo padre pshoshpos qui haischohi stiamo facendo finta che sia ancora a caccia brshbace»]
Mezzucci. Vergogne. Dinamiche impossibili da disincrostare.

«Nonna, ciao. Sono tornata a Roma! Come va?»
«Oddio, Peppì! È Iris, sta bene!»
«Nonna, certo che sto bene...»
«Abbiamo avuto il divieto di telefonarti. Tua madre ci ha terrorizzati, ha detto che non volevi sentire nessuno. Io, ogni volta che sto telefono sguillava, gli urlavo Peppì, magari è Iris!»
Famiglie. Palle di pelo. Ansia congenita. Litri di Estathè.

Miao Puffetta! Sono Iris, non so se ti ricordi. Volevo parlarti della mia seconda intervista radiofonica, fatta per Radio Bruno, in cui ho urlato e parlato così velocemente da sembrare sotto botta di cocaina. Tu che dici? È dipeso dalla paura della mia voce che fa gne gne gne? Dal fatto che mio padre e mia madre mi prendono in giro come ai tempi della Madonnina della 'Mella? Dai miei nonni che vanno nel panico e mi danno per dispersa? Oppure è sempre tutta una grande questione d'amore?

In attesa di risposte, incrocio le vibrisse.
E miao a tutti.

lunedì 27 ottobre 2014

Fucilathè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Oggi è uno di quei giorni che mi capitano ogni tanto. Inizio a riflettere e a bilanciare, a tirare linee di conto e a spingere i tasti della calcolatrice pensando di poter trasformare in lettere i pulsanti numerici.
«Nel 1958, 1 giovane donzella si imbarcò per un viaggio di fortuna su una nave con 5 marinai che le promisero che l'avrebbero portata X i 7 mari. Dopo un terribile naufragio, però, si persero i marinai e le promesse. Chi rimase?»
Ho fatto scivolare la calcolatrice verso Charlie Kaufman, stamattina, dopo avergli raccontato questa storia. Ero convinta che avrebbe capito, almeno lui, in tutto questo strano e semplicistico universo.
«1370705», mi ha risposto.
Sbuffando, gli ho spiegato che avrebbe dovuto girare la calcolatrice per leggere la fine della storia: «Vedi?», gli ho detto. «C'è scritto: SOLOLEI. Chi rimase? Solo lei».
«Non hai battuto lo spazio, Iris. Ecco perché non ho capito...»
Non me la sono sentita di rispondere male a Charlie Kaufman, stamattina, anche se è uno di quei giorni in cui, tra le operazioni di compensazione e i calcoli sbagliati, finisco per decimare le mie scorte di Estathè ed essere sempre più nervosa. Ma, in nessun caso, puoi dire al tuo sceneggiatore preferito che, se non è a conoscenza del fatto che non è possibile battere lo spazio sulle calcolatrici, allora che vada a parlare con qualcun altro.
Quello che mi frega, quando penso in maniera ossessiva alle cose che mi succedono, è che ci metto in mezzo la storia del fucile di Cechov, ovvero la necessità di una premeditazione narrativa: mi dico che se la vita fosse scritta bene, non dovrebbero inserirci elementi che poi non sparano, fucili che si infiltrano nella nostra personale sceneggiatura e che poi non servono a niente.
«Dammi tempo», mi ha detto Charlie.
«Non si può battere il tempo sulle calcolatrici», gli ho risposto io. «Cavolo, però: non sai niente di niente, Charlie Kaufman!»

In giorni come questo, mi chiedo tante cose. Del tipo.
Domanda di Iris: «A che cosa è servito farmi rimorchiare da quel documentarista biondo un po' sovrappeso che mi ha fermato, a una festa, chiedendomi a che cosa davo 10 nella mia vita? A cosa è servito dare una gomitata alla mia amica ubriaca lurida che mi ha urlato nell'orecchio, a pochi centimetri da lui: Ma che te devo libera' da sto ciccione?? A cosa è servito uscirci insieme, urlare di gioia alla notizia che aveva un Basset Hound, farsi convincere ad andare a casa sua a vedere il cane, come una sprovveduta qualunque?»
Risposta di Charlie: «È servito. È servito a regalarti quel momento unico in cui eri seduta sul divano e lui, dalla poltrona, ti ha detto: Tra qualche minuto ti chiederò di fare una cosa e tu sarai costretta a farla e tu hai pensato: Ecco, brava, complimenti, stai per morire a casa di un ciccione biondo che ti ha convinto a venire nel luogo del delitto con la scusa di mostrarti un cane ansimante che ti ha sbavato sulle converse e poi è salito sul divano solo per iniziare un'opera di spinta fuori dai cuscini di questa stronza che si vuole evidentemente rubare il mio padrone. È servito perché quello che doveva chiederti era di ballare un lento con lui, stava solo aspettando che partisse Can't help falling in love with you di Elvis sulla playlist che aveva accuratamente preparato; e tu hai potuto guardare male il Basset Hound, farlo rosicare, abbracciando quell'uomo come se non volessi fare altro che ballare con lui, per sempre (anche se, in realtà, dopo quella sera, non lo avresti visto mai più)...»

«E INVECE NON È SERVITO, CHARLIE! DICIAMOCI LA VERITÀ: NON METTEREMO MAI QUESTA SCENA NEL TRAILER...», ho urlato sul finire della seconda bottiglia di Estathè. « E scusa se urlo, è la teina, non sono veramente io».
Ci abbiamo riprovato, con un triliardo di esempi di cose inutili e irrilevanti, persone che sono entrate nella mia vita solo per uscirne, uomini che mi hanno corteggiata per poi dirmi: «È una questione politica, non posso creare un precedente con te» o migliori amici single incontrati, per caso, mano nella mano con le loro fidanzate (non erano così single come dicevano), alle quali hanno presentato solo una Oris sconvolta dai fatti, fingendo di non conoscermi, per poi dirmi, in separata sede: «E' una questione matematica, non ti potevo aggiungere alla nostra equazione».

«La tua non è semplice sfortuna», mi ha detto Charlie. «È un enigma matematico complesso, una geometria narrativa non euclidea. Non risolveremo le cose con una calcolatrice sulla quale non si possono computare lo spazio e il tempo...»
«Dannato di un Charlie Kaufman, hai sempre ragione tu!».

E infatti, a quel punto, il mio sceneggiatore preferito ha fatto squillare il telefono, come una fucilata. Era mia madre che rideva scomposta da casa di nonno Peppino e nonna Berta: mi ha raccontato che i carabinieri hanno telefonato a mio nonno e gli hanno detto che, visto che non va più a caccia, non può detenere ancora il suo fucile d'epoca, la carabina che possiede da sessant'anni. Lo hanno convocato e gli hanno spiegato che la cosa più semplice da fare era donare l'arma a mio padre che ha tutti i documenti in regola e può sistemarlo in casa, senza rischiare denunce.
Lui ha accettato e mio padre ha firmato, ma poi.
«Peppì, mo' tuo genero si deve portare via il fucile», gli ha detto nonna Berta a cena.
«Non credo proprio. Il fucile non si muove da questa casa»
«Ma se gli fanno un controllo, ci passa i guai...»
«E chi se ne frega. Il fucile non si muove da questa casa, tanto è scarico. Non ho nemmeno una cartuccia...»
«Non è vero! Ne hai quattro nel tuo comodino...»
«IL FUCILE È MIO. PUNTO E BASTA!»
Era proprio mio nonno che urlava, non c'entrava l'Estathè. Mia madre rideva al telefono, mentre lui continuava a dire che non glielo voleva dare quel fucile a mio padre, che lo voleva dare a sua figlia, che quel fucile sarebbe uscito da quella casa solo tra le braccia di mia madre.
«Mamma, ma che ti ridi?», le abbiamo detto io e Charlie.
«Rido perché, per farlo calmare, gli ho dovuto dire che non importa che la carabina non è intestato a me, che tanto, alla fine di tutto, sarà tua e di Oris...»
«E quindi ve lo ha smollato 'sto fucile?»
«Certo che no», mi ha detto lei, continuando a ridere.

E allora ho cominciato a ridere anche io perché ho pensato che, forse, tutti questi conti che non tornano, queste calcolatrici che non risolvono i miei guai, queste persone che agiscono e parlano in maniera assurda, questi documentaristi che fanno odiare Elvis dai loro cani e queste bottiglie di Estathè che sembrano avere un buco sotto da quanto finiscono in fretta sono fucili che è bene che non sparino. Come quello di nonno Peppino.
«NON TOCCATE LE MIE CARTUCCE!», è stata l'ultima cosa che ho sentito.

«Questo sì che lo mettiamo nel trailer», mi ha detto Charlie.



martedì 23 settembre 2014

Manuale delle giovani marmotthè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Non è facile muoversi con grazia e abilità in questa natura ostile, sia quando essa è sotto forma di intricata giungla online che quando è una desolata tundra off. È questo il motivo principale per cui io procedo goffa e scontrosa lungo i sentieri sconnessi di questo mio perenne campeggio esistenziale.
Sono una giovane marmotta dipendente dalla teina, alla disperata ricerca di regole di vita sensate, di linee guida che mi facciano sembrare un po' più elegante e un po' meno impervia nelle mie esternazioni. Non ho fatto altro che pensare a questo, nei giorni confusi che sono passati tra l'uscita del mio libro e la sua prima presentazione pubblica.
Mentre ero alla ricerca di punti fermi, mi sono ricordata che, nella mia vecchia casa, quella in cui ho vissuto per tanti anni e con tanta -troppa- gente, avevamo un Manuale di sopravvivenza tra i libri: ce lo aveva lasciato la proprietaria di casa, insieme a un paio di spade incrociate dietro a uno scudo e a un quadro del Vate, appeso molto in alto, che ci ammoniva torvo quando mangiavamo la Nutella del Todis, foriero di cattivissimi presagi. La meraviglia di questo Manuale di sopravvivenza era nel suo essere perfettamente inutile, visto che ci forniva risposte a domande che non ci saremmo mai fatti: la prima volta che lo abbiamo sfogliato voracemente è stata la sera che una tempesta ha allagato il terrazzo della nostra palazzina e l'acqua ha iniziato a uscire dai lampadari e dalle prese della corrente del nostro attico. Lo abbiamo sfogliato a lume di candela («Sì, anche questa candela l'abbiamo comprata al Todis, Gabriè!») e la pagina più utile che abbiamo trovato per risolvere il nostro problema è stata: Come difendersi dall'attacco inatteso di un gruppo di oche.
Era letteratura di altissimo livello, chiaramente, ma assolutamente priva di un'utilità di qualche tipo; infatti Qui, Quo e Qua, che erano con me quella sera, mi hanno fatto notare che non ci avrebbero potuto accendere nemmeno un fuoco con quelle pagine, tanto erano insolventi.
È per loro e per me che ho provato a fare un piccolo decalogo fuoricampo, una voce che possa seguirmi e seguirci quando, strafogandoci di Estathè e guardando la nostra bussola interna, ci diciamo: «Vabbè, quello è il nord. E quindi?».

PUNTO PRIMO: Essere specifici e concreti; ambire alla precisione e curare le bugie fino a renderle quasi verità con i cerotti.
«Qui, Quo e Qua, vi piace leggere?»
«Noi leggiamo solo il Manuale delle giovani marmotte»
«C'è una cosa che vi devo dire e allora vorrei farmi aiutare da un saggio di John Barth sulla scrittura, che ne parla in termini di specificità e cita questa frase meravigliosa di Dylan Thomas sulle descrizioni generiche che certi scrittori fanno...»
«Taglia corto, Iris»
«Tutti gli alberi sono querce -tranne i pini»
«Ovvero?»
«È la frase di Thomas»
«Non capiamo»
«Era per dire che voi vi chiamate Giovani Marmotte, ma in realtà siete disegnati come anatre antropomorfe, pur essendo dei paperi»
«E quindi?»
«I paperi sono i maschi delle oche che non hanno ancora raggiunto la maturità sessuale. Quindi, in pratica, voi siete un gruppo di oche»
«...»
«Ok, forse non avrei dovuto dirvelo»
«...»
«Scusatemi»

PUNTO PRIMO bis: Essere specifici e concreti; ambire alla precisione e curare le bugie fino a renderle quasi verità con i cerotti MA stando attenti a non essere troppo puntigliosi e pedanti.
«Pallax, ho letto il tuo messaggio che diceva EMERGENZA. Che è successo?»
«Una tragedia, Iris. Una tragedia. Sai l'orecchio che mi faceva male?»
«Eh, non era domani che dovevi vedere l'otorino?»
«Sì, è domani. Ma siccome 'sto tipo non lo conosco, ho pensato di andarlo a cercare su Google e mi è uscita la sua pagina Facebook»
«E quindi?»
«Oh, è della LAZIO! Della LAZIO! Mi farà malissimo, sarà cattivo e stronzo, un tipo improponibile, già lo so. E ho paura!»
«...»
«Iris‽»
«...»
«Cos'è quel segno incomprensibile che mi hai fatto usare‽ Ecco! L'hai fatto di nuovo!»
«È il punto esclarrogativo. Direi che te lo sei meritato. Non credi?»

PUNTO PRIMO tris: Essere specifici e concreti; ambire alla precisione e curare le bugie fino a renderle quasi verità con i cerotti, stando attenti a non essere troppo puntigliosi e pedanti E fidandosi delle opinioni degli altri.
«Iris che c'hai? Ti vedo pensierosa»
«Eh, nonno: domani ho la prima presentazione. Ho paura»
«Non devi avere paura»
«Eh, ma ce l'ho»
«Ci pensa nonno. Beviti sto vinello frizzantino, me l'ha portato zio»
«Nonno, non lo so se è il caso»
«Fidati di nonno»
(…)
«Peppì, dove sta tua nipote?»
«In bagno...»
«Nonna, eccomi. Scusa»
«Scusa di cosa?»
«Ho vomitato»
«Quello è stato l'Estathè. Non ti preoccupare. Hai scaricato?»
«Il fatto è che è stata una cosa improvvisa e ho vomitato nel lavandino»
«...»

PUNTO PRIMO quater: Essere specifici e concreti; ambire alla precisione e curare le bugie fino a renderle quasi verità con i cerotti, stando attenti a non essere troppo puntigliosi e fidandosi delle opinioni degli altri MA fino a un certo punto.
«Sapete qual è quel punto, cari Qui, Quo e Qua? Quello che ti impedisce di vomitare nel lavandino del bagno dei tuoi nonni...»
«...»
«Scusatemi: il fatto è che non sono capace di fare i decaloghi, non sono stata in grado di andare nemmeno oltre il punto uno»

È per questo che l'altro giorno ho costretto Oris a venire con me nella casa in cui abbiamo vissuto per tanti anni e con troppa gente, con la scusa della borsa di quando faceva danza da piccola, persa nel trasloco che abbiamo fatto due anni fa (ovviamente, Oris si è accorta di averla persa l'altro ieri e potrebbe essere praticamente ovunque). Ma io l'ho spinta a fare quell'improvvisata perché il mio vero intento era di rubare il fantastico e folle Manuale di sopravvivenza, sotto agli occhi sconvolti del Vate. Invece mi sono ritrovata a cercare la borsa di Oris con la testa in un soppalco impolverato e un paio dei nuovi inquilini di quella casa che mi guardavano sconvolti.
E ho perseverato nel mio essere goffa, scontrosa, impervia e poco elegante.
Ma che vi devo dire? Almeno ci ho provato.

Ho imparato a leggerla quella dannata bussola, ma con questo nord non so davvero cosa farci.


P.S. Per mera informazione: la presentazione del mio libro è andata, in qualche modo, e non ho vomitato in nessun altro lavandino. Solo che della cosa ho ricordi vaghi: non so cosa ho detto, in che modo l'ho detto, con che voce l'ho detto. Era come se fossi ubriaca. Deve essere colpa del vinello frizzante che mi ha fatto bere nonno Peppino.

P.P.S. Il punto esclarrogativo è un'arma per difendersi dai fattoriali che mi ha insegnato una mia amica molto pericolosa. Vi invito a servirvene, in caso di necessità.


giovedì 28 agosto 2014

Thèoria idraulica delle famiglie

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Da ieri il mio primo romanzo si trova in libreria e io mi sento tranquilla. Se togliamo tutta quella roba inconscia di vertigini, formicolii e del secondo e terzo dito del piede destro che mi si sono addormentati, posso dire di sentirmi tranquilla.
Sono stati versati fiumi di Estathè, serviti calici a forma di brick, raccolte gocce con le cannucce bianche, esattamente come succede in tutti i giorni appicciccosi e chimici di questa mia vita, perché, in fondo, ieri è stato un giorno identico a tutti gli altri, con la gente che urlava «Maria puttana incivile» dal palazzo di fronte e quelli di sotto che soffriggevano l'aglio alle dieci di mattina.
Quindi, cari Illice e Trillice, vi sareste pure potuti svegliare, senza continuare a mandare avanti questo melodramma di nervi tesi, tanto Crosta è ormai lontano da qui e non può farci niente...
Crosta. Già, Crosta. Mi spiego, visto che la cosa riguarda il modo in cui la mia condizione di scrittrice può essere sintetizzata da un cocktail.
Un mese fa, quando ho compiuto trent'anni, sono andata con degli amici in un locale e, a un certo punto, si è avvicinato questo sedicente Crosta, mentre ero con un sottogruppo di belle fanciulle, e si è presentato.
«Che strano nome Crosta. E' un diminutivo del cognome?»
«No no. So' proprio io...»
«Una crosta?», ha chiesto una delle mie amiche, indisponendolo. E allora lui ha concentrato le sue attenzioni su di me, la solita fortunata.
«Aò, ma che c'hanno le amiche tue? Je rode er culo?»
«No, è che stiamo festeggiando il mio compleanno»
«Ah, ecco. È il tuo compleanno, Itis»
«Veramente il nome sarebbe Iris. Itis fa troppo Istituto Tecnico Industriale Statale...»
«Quindi tu lavori in questo istituto?»
«No, no. Veramente io scrivo»
«Che fai tu?»
«Io scrivo, ecco. Sono una scrittrice»
Non so bene perché l'ho detto. Forse perché era il mio compleanno, forse perché lui capiva la metà delle cose che dicevo o forse perché un po' me lo sentivo che Crosta mi avrebbe regalato quello splendido momento d'ira in cui, con gli occhi fuori dal suo bicchiere, ha aspettato di deglutire per bene, prima di urlami: «Ma mo' te tiro 'sto cocktail 'n faccia, mortacci tua!».
È stato grazie alla mia amica Pallax, avvezza al romanesco e amante di Richard Benson, se il mio compleanno non è finito in tragedia.
Crosta, se mi ascolti, te lo dico da qui: non ti stavo prendendo in giro. Scrivo davvero. Ho scritto. E spero che scriverò ancora. Ho pure un accenno di gobba, se guardi bene.
E poi, oh: ho questo. Te lo dovrei tirare io un cocktail in faccia, mortacci tua.


«Abbiamo problemi più grandi di questo, cara Iris Versicolor: problemi peggiori della tua condizione di scrittrice, delle tue dita dei piedi e di Crosta»
«Quali problemi, Iris?»
«Ecco, esattamente questo. Io sono un personaggio del tuo libro, sto facendo la voce fuori campo del tuo blog e mi chiamo come te. Iris. Non credi che questo creerà confusione?»
«Non tutte quelle che si chiamano Maria sono puttane incivili. Non tutte quelle che si chiamano Iris bevono Estathè. Prova a cercarle Iris e Maria per Roma e chiedigli se bevono l'Estathè...»
«Io non so nemmeno cosa sia l'Estathè e tu sembri farneticare...»
«In effetti, mi sento confusa»
«Visto che avevo ragione?»

Ok, lo ammetto. Non sono tranquilla. Per niente. Pezzetta e Oris mi hanno comprato una scorta di Estathè che sembrava infinita, ma devo averne bevuto due lettere perché adesso sembra finita. E poi le cose che si realizzano sono sia bellissime che spaventose: se solo penso a quando il mio amico Tommasino mi faceva soffiare sui denti di leone per esprimere i desideri o a quando le candeline, le stelle, i primi frutti di stagione mi spingevano a desiderare sempre la stessa cosa, trovo assurdo che sia successo.
«Mo si può pure cambiare 'sto desiderio, no? Passare alle cose normali, tipo: trovarsi un fidanzato, farmi un nipotino...», mi ha detto una persona di cui cercherò di mantenere l'anonimato (dirò solo che inizia per M e finisce con IA MADRE).
Ma il libro è stato effettivamente sistemato in libreria e allora io, ieri, mentre impedivo a un piccione di sostare sul mio davanzale e indossavo il busto ortopedico di Oris, sperando che qualche muscolo si rilassasse e che Illice e Trillice si svegliassero, ho pensato a due cose.
La prima è il giorno in cui Simone, il mio editor, mi ha detto che la Elliot avrebbe pubblicato il libro. Ero con mio nonno, in una camera di ospedale, perché lui era in terapia intensiva (ora Peppino sta bene, è insolente come sempre): l'ho guardato e gli ho detto «Nonno, mi pubblicano il libro». Lui ha strizzato gli occhi e mi ha risposto: «Io invece ho fatto cadere per terra tutta la camomilla che mi hai portato». Le due cose, in effetti, hanno vari punti di equivalenza.
E poi ho pensato al giorno in cui hanno stampato il libro e io sono andata dalla mia famiglia per mostrarglielo. Non sapevo bene cosa dire a nonna Berta (che ha sempre guardato i libri con un certo sospetto -da piccola me la immaginavo urlami dietro la poesia del Belli: «Li libri nun so' robba da cristiano: Fiji, pe’ carità, nun li leggete.»), quindi le ho dato il libro e le ho detto: «Nonna, dopo i libri che ho letto, adesso uno l'ho scritto»; lei mi ha risposto con uno sguardo truce, si è rivoltata quel mattoncino verdeacqua tra le mani e preoccupata mi ha chiesto: «Quindi pure questo ti sei letto?».
«Beh, nonna, l'ho scritto. Quindi, sì, me lo sono dovuta pure leggere.»
«Aò, vabbè. Ma io che ne so...»

Ieri è stato un giorno come tutti gli altri. Ma forse anche no.
Pure io, in fondo in fondo, cosa volete che ne sappia...

martedì 22 luglio 2014

Come città aperthè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Ci capita, ogni tanto, di macchiarci del reato di appropriazione indebita di noi stessi. Il fatto che ci possediamo non ci dà alcun diritto di approfittarcene. Il nostro crimine è una conseguenza di un processo mitotico durante il quale un'overdose di pensieri, parole, opere, (o)missioni (ed Estathè, per qualcuno) provoca una divisione equazionale e noi ci riproduciamo in due diversi noi stessi. Quando mi succede, Oris dice che è come se ci fosse una Iris con in braccio un forcone che corre dietro ad un'altra Iris disarmata, punzecchiandole il culo per farla correre più veloce.
In pratica, non siamo più totalmente titolari del nostro corpo e del nostro cervello e ci esprimiamo in comportamenti solo assimilabili a quello che veramente siamo, con il fine di procurare, a noi o ad altri noi, profitti di qualche genere.
Reato di appropriazione indebita, appunto.

Uno degli aneddoti preferiti di mia madre (lo racconta a tutti gli amici che le porto casa) riguarda quella volta che io e lei eravamo sommerse di casini, con poco tempo a disposizione e troppi spazi da percorrere, e siamo entrate di fretta in un supermercato perché non avevamo quasi più niente in casa.
«Non ti preoccupare, faccio io», le dicevo, correndo di qua e di là come un'ossessa: «È tardi, è tardi, è tardi. L'Estathè, l'Estathè, l'Estathè. Faccio io, faccio io, faccio io»; ho preso la sporta di stoffa per metterci la spesa e, nell'aprirla con troppa foga, l'ho stracciata in due.
La gente era sconvolta e mi guardava tentare di rimettere insieme i due lembi della shopper (ormai non più riutilizzabile), con la paura che, da un momento all'altro, potessi diventare una verde, enorme e cattivissima signorina Hulk.
Tutto questo per dire che quando, qualche giorno fa, sono andata da Oris e l'ho avvertita che, siccome volevo rilassarmi, mi sarei messa a pulire il forno, lei non mi ha risposto che le sembrava una follia: ha guardato le mie mani in alto, bene in vista, e l'altra Iris che mi spingeva avanti minacciandomi con il forcone e ci ha lasciate fare.

«Ecco, mo ci intossicano», ha detto preoccupato Jackie O'.
Jackie O' è un geco che vive nel nostro lampadario da una settimana e che la sera guarda la televisione con noi.
«Vi mangia le zanzare!», ci ha detto nostra madre: «ma non fatelo avvicinare a Iris che quella è capace di stracciarlo in due. Ve l'ho raccontato di quella volta che...».
Siccome soffro di sensi di colpa continui e non volevo stracciare, cacciare né tantomeno gasare Jackie O', ho deciso di pulire il forno con un metodo naturale, senza intossicazioni chimiche, quindi ho mescolato sale, bicarbonato e acqua e l'ho gettato sulle pareti interne dell'elettrodomestico come un perfetto muratore con la calce e poi mi sono messa ad aspettare. Anche se sul sito dove mi sono informata c'era scritto scrub ecologico, io non ho pensato che dovevo strofinare: ho chiuso il forno e ho incrociato le braccia per un'ora.
Ovviamente, quando ho riaperto, il composto si era seccato.
«Di zozzerie, tua sorella, ne ha fatte tante», ha detto Jackie O' a Oris «ma questa le batte tutte». Oris, però, non era in grado di sentire quella voce quindi: «Senti, Iris» mi ha detto. «Quel geco mi sta fissando, tu sei infilata con la testa in un forno pieno di bicarbonato secco e abbiamo un balcone invaso da bulbi morti che sembrano cipolle mezze interrate. Che dobbiamo fare?»
«Oris, se non mi lasci finire, non potremo usare il forno mai più»
«Ma è davvero così che ti rilassi?»
«Oris, ti prego...»
«La verità è che, da quando vi ho permesso di fare la raccolta differenziata, questa casa è diventata una giungla...»

Due ore, un prodotto chimico, mezza bottiglia di Estathè e una canottiera sporca di grasso dopo, il forno era splendente, mentre io e l'altra Iris lo eravamo molto meno. Oris si è avvicinata con un cuscino del salotto tra le mani e mi ha detto che Jackie O' ci aveva cacato sopra.
«Come fai a sapere che è stato lui?»
«Ho cercato su internet come è fatta la cacca dei gechi. È giunta l'ora: deve sloggiare...»
Sono andata a parlare con Jackie O' e gli ho spiegato che, nell'ordinamento giuridico della nostra casa, il suo reato comportava uno sfratto subitaneo. Lui, di risposta, si è infilato all'interno del lampadario.
«Sta raccogliendo le sue cose. Ora se ne va. Mi ha detto che aveva già deciso di lasciarci quando ho spruzzato quello sgrassante artificiale nel forno.»
«Certo, geco incivile, sei meglio te!», gli ha detto Oris mentre lui varcava la soglia della finestra senza dirci addio.

Ci comportiamo come città aperte: cediamo, ci abbandoniamo, sventoliamo bandiera bianca per evitare la distruzione nemica, appigliandoci a un principio di autoconservazione. Io mi lascio sempre invadere da me stessa, mi lascio occupare e poi mi ritrovo a pulire dal grasso la canottiera bianca che ho indossato per lavare il forno, mentre l'altra Iris, severa come il sergente maggiore Hartman, mi urla nelle orecchie che adesso, per rilassarmi, dovrò ripitturare la camera di Pezzetta (che sarà anche un modo per scusarmi visto che la canottiera che ho rovinato era la sua: me l'aveva regalata con tanto amore fraterno).
«Ma chi sei? Cenerentola?», mi ha chiesto Jackie O', affacciandosi dalle fenditure della persiana.
«Non credo. Tra due giorni ho trent'anni e nella scarpina non riesco a infilarci nemmeno mezzo brick di Estathè», gli ho risposto.
«Forse, in questa storia, c'è una Iris di troppo...»

Ho trovato il coraggio: mi sono fatta consegnare il forcone dalla Iris di troppo e mi sono detta, dicendolo a lei, che, nell'ordinamento giuridico di me stessa, il reato di appropriazione indebita equivale a cacare su un cuscino. Non ho ridipinto la camera di Pezzetta, mi sono fatta tagliare i capelli male e ho chiuso la città aperta, dopo aver cacciato sia Iris Hulk che Iris sergente Hartman. Ho fatto anche dei buoni propositi sulla mia vita, tipo Se devi proprio commettere adulterio, procedi. Ma mai con il thè freddo fatto in casa...
Perché, tra poco, compio trent'anni e cambio decina.

In matematica, 30 è un numero abbondante, con o senza lode.
Speriamo in una cornucopia di bene.

mercoledì 2 luglio 2014

Thè Sims

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Ci sono dei momenti, nella vita di Oris, in cui è circospetta, quasi furtiva. Di solito si avverano mentre sparecchiamo la tavola, mentre laviamo i piatti o mentre puliamo la casa; si avverano quando cerca di ristabilire quel suo personale ordinamento dell'universo nel quale lei divide et impera. Esistono diverse formule attraverso le quali ciò accade:
  • la sparizione (Oris c'è, Oris non c'è più, oppure il famoso: «Adesso torno! Mi sta squillando il telefono!»);
  • il caos (Oris ti fa tanti piccoli giri intorno, in modo che tu ti distragga, pensando che anche lei sta partecipando alle attività, solo più tardi scoprirai amaramente di aver fatto tutto da solo, che l'unico apporto di Oris è stato sommergerti con un'ondata di parole e anidride carbonica -per questo e per altri motivi viene chiamata Tsutsunami);
  • la frivolezza (nelle varianti: Oris DJ, Oris «Vi faccio vedere come mi stanno i vestiti che mi sono comprata?» e Oris GiocoDelle3Carte «Dai! Carta vince, carta perde!» -succede sempre che Oris vince e la squadra Iris&Pezzetta perde).
È stato in maniera circospetta e furtiva che, qualche giorno fa, si è presentata in camera mia con in mano il suo iPad e mi ha chiesto: «Si chiamava The Sims quel gioco dal quale eri ossessionata quando eri piccola?»
«Si chiamava Estathè quel gioco dal quale ero ossessionata quando ero piccola»
«Madonna, Iris! Dici sempre le stesse cose! Te ne rendi conto? La tua vita ha bisogno di più avventura. Sai che faccio? Darò il tuo nome al mio primo Sim»

La semplice realtà non basta più a nessuno e questa è una verità noiosa e sufficientemente ovvia. Il fatto che mia sorella abbia deciso di mettersi a combattere con un simulatore di vita che andava di moda più di dieci anni fa (The Sims, appunto) rende gustosamente vintage questa verità. Il fatto, poi, che guadagni dei soldi che si chiamano simoleon coltivando angurie e che costruisca case con le pareti a pois rende dannatamente divertente questa verità. Il fatto, infine, che gestisca un'intera città in cui abitiamo noi e i nostri amici, sotto forma di avatar, rende assolutamente geniale questa verità.

Quando ci giocavo io a The Sims, non ci giocavo veramente: un mio amichetto nerd mi aveva insegnato un trucco, un codice che mi permetteva di avere una quantità infinita di soldi. Ero una specie di ereditiera priva di scrupoli, sfornita del senso del denaro, quindi passavo il mio tempo a costruire supercase di tre piani, con centri benessere, piscine, comfort sciocchi e personaggi senza obiettivi che finivano per morire in incendi scoppiati durante la preparazione di una torta (se non gli fai studiare un manuale prima di metterli ai fornelli, succede) o per affogare in piscine extralusso in cui mi ero dimenticata di costruire le scalette di uscita. La cosa più folle era che, alla morte di un Sim, compariva una lapide, nel posto stesso in cui era morto, e tutti gli altri si raccoglievano lì intorno a piangere. E piangevano, piangevano. Allora io azzeravo la partita e ricominciavo da capo.
Oris, invece, non conosce trucchi (non che non ci abbia provato, eh, quell'ambiziosa imperatrice del mondo!), quindi è costretta a sgobbare.
Quello che segue è il report delle conversazioni assurde che sono avvenute tra Oris, il suo iPad, me e Pezzetta, anche se chiamarle conversazioni è sbagliato, visto che, più che altro, sono stati dei folli monologhi che ci hanno inseguito in tutte le stanze.

Mansione sociale: Non credi che il tuo Sim si senta solo? Crea dei vicini di casa per lui!
«Allora, Iris, eccoti qua: ti piaci? Sono stata costretta a farti tutte queste tette, ma in compenso c'è anche una voce fuoricampo! Non sei contenta? Adesso, siccome non potevi vivere da sola nella città, ti ho creato tre vicini: Oris Tsutsunami, Pezzi Pezzi (risata bionda) e Fabio Fazio. Vedi? Ti spiego: Fabio Fazio è il tuo possibile fidanzato, infatti sta nella casa accanto alla tua; ama pescare e lavora insieme a tutti noi in un centro scientifico. Per ora siamo al livello Cavie da laboratorio, ma è solo uno stage, possiamo crescere in questa azienda. Gli altri due siamo, inutile dirlo (seconda risata bionda), io e Pezzetta. Tra l'altro, fammi aprire una parentesi, trovo molto scortese che Pezzetta si sia tagliato la barba proprio questa settimana, visto che il suo Sim, invece, ce l'ha lunga... E dire che io mi sentivo in colpa perché, avendo finito i soldi, invece di una casa normale ho dovuto costruirgli un santuario che si chiama così ma, nella pratica, è un monolocale con il bagno esterno...»

Missione matrimonio: Non credi che sia arrivato il momento dell'amore? Fai che due dei tuoi Sim creino una relazione stabile che sfoci in un matrimonio.
«Lo so che avevo detto che ti avrei fatto fidanzare con Fabio Fazio, ma, a parte che questo esce a pesca e sta fuori anche per 24 ore di seguito... Sì, sì, certo che ce lo mando io, che c'entra? Devono guadagnare questi Sim sennò chi la manda avanti 'sta baracca? Comunque, a parte la pesca, ho notato che tra Oris e Pezzi Pezzi c'era qualcosa, un certo feeling, e quindi ho puntato su loro due. Vedi? Ponderano, si fanno gesti romantici, gentilezze, si baciano. Ecco! Ecco! Ce l'ho fatta! Si sposano!»
Nel frattempo, la città è cresciuta, ci sono anche Core, il nostro amico Roscio, Giaris, il cane di Core e molti altri, quindi, avendo io avuto la fortuna di avere Oris sul bracciolo della mia poltrona mentre accadeva il completamento del livello Nozze (una vicinanza imposta, chiaramente), ho assistito alla follia della festa, con tutti questi Sim che ballavano a casa di Oris e Pezzi Pezzi. In ogni caso, grazie a questo matrimonio di convenienza, Pezzi ha lasciato il suo santuario e si è trasferito nella casa rosa shocking di Oris, prendendo il suo cognome.
«Quindi, mo' sono Pezzi Tsutsunami?» è stato l'unico commento di Pezzetta.

Missione due Sim e mezzo: Non credi sia ora di far crescere la famiglia? I tuoi Sim sembrano pronti a comprare una culla...
È qui che l'ho vista vacillare. All'idea di avere un bambino, anche se virtuale, ho visto l'amore di Oris per The Sims vacillare fortemente; ha riflettuto, discusso con Pezzetta, fatto guardare ai loro avatar dei documentari sui bambini. Poi si è fatta forza e ha spinto il pulsante Fiki Fiki (lo giuro, c'è un pulsante Fiki Fiki).

Driiin, driiin.
«Mamma, senti, ti volevo dire che diventerai nonna. Ti sto facendo trasferire in una casetta che si chiama santuario. Hai il bagno esterno, ma non ti preoccupare, cercheremo di fare dei lavori. Ora sia io che Iris siamo passate al livello Assistenti di laboratorio; Pezzi è ancora Cavia, ma nutriamo buone speranze. Volevo chiederti: ti va bene se ti metto la carta da parati broccata?»
«Pensavo di essermi liberata di quel gioco tanti anni fa, comprandomi Iris con due casse di Estathè...», è stato l'unico commento di mia madre.
E invece no, mamma, pare proprio di no.