Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

sabato 9 gennaio 2016

Virtuthè e canoscenza

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Ovviamente, io ero una di quelle bambine che vomitano in macchina. «Oltre a tutti gli altri problemi che ci hai dato», mi dicono sempre i miei genitori, solo perché nei miei primi anni di vita ho avuto un atteggiamento discretamente ostile nei confronti della socialità – che poi, a parte aver strappato la camicetta di mia madre la prima volta che ha tentato di portarmi alla scuola materna, a parte aver fatto un sit-in di protesta all'ingresso, la seconda volta che ci ha provato (mossa che mi ha fatto vincere l'astensione totale), a parte aver picchiato Oris con un secchiello perché aveva fatto un castello di sabbia con una sconosciuta vicina d'ombrellone con la quale io mi rifiutavo di parlare e a parte aver scelto di passare tutti i pomeriggi della mia infanzia nell'officina di Valentino, il meccanico che stava sotto casa mia, invece di uscire con le amiche (che erano le amiche di Oris, visto che io di amiche non ne avevo): a parte queste quisquilie, che cos'altro? Io non mi ricordo nulla di grave, se escludiamo il fatto che ero una di quelle bambine che vomitano in macchina.
In ogni caso, per accompagnare i miei viaggi in auto, da piccola, avevo Virgilio, un poetico cerotto transdermico alla scopolamina posizionato dietro l'orecchio, che mi scortava nella speranza di districarmi dalla selva oscura del mio insopportabile mal di vivere.

«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco selvaggio»
«Virgilio, stiamo andando al mare, in Liguria, non è che posso scendere e andarci a piedi... Ho vomitato talmente tante volte da stremare mia madre e ora che lei, vinta dalla stanchezza, si è addormentata, mio padre si è perso e stiamo percorrendo una salita. Non so come dirgli che sono più che certa che non troveremo il mare se continuiamo ad andare su...»
«Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti»

Posso dire, senza timore di sembrare esagerata che, tra vestiboli di Autogrill sanza 'nfamia e sanza lodo, gironi di automobilisti iracondi e bestemmiatori, tra Oris che non faceva altro che dormire e il walkman che non riusciva a coprire l'autoradio, tra le bolge di cartelli stradali ipocriti e seminatori di discordia, quei viaggi erano davvero un Inferno.
«La famiglia Brambilla in vacanza», diceva sempre mia madre, quando ancora mi passava i sacchetti anti-vomito invece dei brick di Estathè – che solo più avanti sono stati formalmente accettati come rimedi per la chinetosi, trasformando quell'Inferno in un più tiepido Purgatorio.
Devo ammettere che il fido Virgilio non ha mai mollato, né quando uno struzzo del parco di Paliano mi ha rubato il cerotto, beccandomi dietro l'orecchio durante una gita in prima elementare, né quando i cerotti allo scopolamina sono stati sostituiti da cerotti normali inneggianti all'effetto placebo (ho già ampiamente spiegato che la mia famiglia dice le bugie, dalla Madonnina della 'mella in poi, le cose non sono mai cambiate: a volte penso che il loro prendermi in giro sia il contrappasso per il mio essere patologicamente fissata con la verità).

«Mamma, è inutile che dici: 'Ma che vogliono tutti questi che mi lampeggiano e mi suonano?'. Siamo contromano. Questo è un senso unico! Virgilio, ti prego, diglielo pure tu...»
«S'i' ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell'ombra,
«l'anima tua è da viltade offesa»
«Non è viltade, Virgilio, è che siamo contromano nella zona industriale di Frosinone. Non mi sembra proprio un colpo di genio...»

Mi ricordo che un agente letterario, leggendo le bozze del mio primo romanzo, mi disse: «Sai che usi tantissimo il verbo vomitare?». Se solo penso che Pilathès, I pomeriggi senza thè, Seduthè spiritiche, Via il denthè via il dolore, Manuale delle giovani marmotthè, Letthère d'amore, Thèlecomando e L'orizzonthè degli eventi sono solo alcune delle pagine di questo blog in cui parlo del vomitare, mi rendo conto di trovarmi di fronte al mio inconscio che cerca di dirmi qualcosa.
Se mia madre sapesse che Sartre ha scritto: «È dunque questa la Nausea: quest'accecante evidenza?», di certo risponderebbe: «No, Jean-Paul, tranquillo; è che beve troppi Estathè». Ma il fatto è che l'evidenza dell'esistenza molto spesso è davvero imbarazzante.
Come arrivare nella piazza di un paesino del New Jersey di Roma (grazie Francesco Pacifico per questa definizione perfetta), con Oris e Denis, in tre su una Smart, con lo stereo a tutto volume e Calcutta che canta: «L'ultimo dei Mohicani non so di chiii!».
Chiaro che poi qualcuno dirà:
«Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza»
«Virtute e canoscenza? Oris ma è Virgilio che parla? Che succede? Con questo volume non si sente niente...»
«Iris, è solo Ulisse che incita i suoi a superare le colonne d'Ercole...»
«Ragazze, che state dicendo? Dite che sembro Ercole? In effetti, uscire con voi due insieme si può considerare la tredicesima fatica di un eroe figo, forte e di Roma nord. Però, dai, non fate così le sottone...»
«Ha veramente detto sottone
«Ha veramente detto sottone. Se vuoi, puoi vomitare...»
E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v'offende!»

La verità è che, macchina o non macchina, io non ho mai smesso di vomitare. Ho la nausea se fa troppo caldo o se fa troppo freddo. Ho la nausea se sento un odore che non mi piace, un sapore che non mi piace o una parola che non mi piace. Ho la nausea se mia madre mi dice «Tranquilla, ci pensa mamma» e poi, con una manovra sbagliata, si infila in una cunetta di campagna riempiendo di terra la marmitta della Uno bianca che aveva mio nonno. Ho la nausea se rido troppo, ma anche se piango troppo. Ho la nausea quando le persone si rimangiano quello che mi hanno vomitato addosso un attimo prima.
Insomma, ho la nausea per tutto quello che non riesco a controllare, è questo che mi vuole dire il mio inconscio: se mi ostino a seguire Ulisse, se insisto ad andare oltre il limite di quello che è mi concesso sapere, incontrerò burrasca, traballamenti, un vortice e il mal di mare mi picchierà col secchiello sullo stomaco.

«Iris, stai meglio? Possiamo ripartire?», mi ha chiesto Denis, dopo che aveva accostato per prevenire drammi.
«Sì, grazie. Abbassa solo un po' la radio, però, ché dentro questa scatoletta sembra di stare all'Inferno...»
«Va bene. Allora spengo e parliamo. Sapete perché il Paradiso non è bello come l'Inferno e il Purgatorio ne La Divina Commedia? Sapete perché da quando arriva Beatrice tutto è meno entusiasmante? Perché Dante era un sottone, ecco perché!»

Senti, 2016, cerca di fare il sottone pure tu: incatenati a qualche terzina di endecasillabi, fai trovare il mare in montagna a mio padre, permetti a Virgilio di entrare in Paradiso, rendi gli struzzi allergici alla scopolamina e non farmi rispondere positivamente all'effetto placebo. Ti prego, non vomitarmi contromano dentro la prima scuola materna incontrata fuori da quello strano viaggio infernale che è stato il 2015, dammi chiavi, candele, iniettori, candelette, freni, sterzo, crik, pinze, gomme, dadi, frizioni e fusibili. Non so niente di motori, visto che nelle macchine principalmente ci ho vomitato, ma sono cresciuta dentro un'officina, in qualche modo riuscirò a salvarmi.


P.S. Per chi vive fuori da Roma Nord, sottone vuol dire uno che «Aò, certo che ce stai proprio sotto»: stai sotto a una donna, a una situazione, a un luogo, a una droga, a una cantica dantesca, all'Estathè, alla vita.