Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
“Ehi
tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi
una voce fuoricampo”
Ovviamente,
io ero una di quelle bambine che vomitano in macchina. «Oltre a
tutti gli altri problemi che ci hai dato», mi dicono sempre i miei
genitori, solo perché nei miei primi anni di vita ho avuto un
atteggiamento discretamente ostile nei confronti della socialità –
che poi, a parte aver strappato la camicetta di mia madre la prima
volta che ha tentato di portarmi alla scuola materna, a parte aver
fatto un sit-in di protesta all'ingresso, la seconda volta che ci ha
provato (mossa che mi ha fatto vincere l'astensione totale), a parte
aver picchiato Oris con un secchiello perché aveva fatto un castello
di sabbia con una sconosciuta vicina d'ombrellone con la quale io mi
rifiutavo di parlare e a parte aver scelto di passare tutti i
pomeriggi della mia infanzia nell'officina di Valentino, il meccanico
che stava sotto casa mia, invece di uscire con le amiche (che erano
le amiche di Oris, visto che io di amiche non ne avevo): a parte
queste quisquilie, che cos'altro? Io non mi ricordo nulla di grave,
se escludiamo il fatto che ero una di quelle bambine che vomitano in
macchina.
In
ogni caso, per accompagnare i miei viaggi in auto, da piccola, avevo
Virgilio, un poetico cerotto transdermico alla scopolamina
posizionato dietro l'orecchio, che mi scortava nella speranza di
districarmi dalla selva
oscura del
mio insopportabile mal di vivere.
«A
te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose,
poi che lagrimar mi vide,
«se
vuo' campar d'esto loco selvaggio»
«Virgilio,
stiamo andando al mare, in Liguria, non è che posso scendere e
andarci a piedi... Ho vomitato talmente tante volte da stremare mia
madre e ora che lei, vinta dalla stanchezza, si è addormentata, mio
padre si è perso e stiamo percorrendo una salita. Non so come dirgli
che sono più che certa che non troveremo il mare se continuiamo ad
andare su...»
«Vien
dietro a me, e lascia dir le genti:
sta
come torre ferma, che non crolla
già
mai la cima per soffiar di venti»
Posso
dire, senza timore di sembrare esagerata che, tra vestiboli di
Autogrill sanza
'nfamia e sanza lodo,
gironi di automobilisti iracondi e bestemmiatori, tra Oris che non
faceva altro che dormire e il walkman che non riusciva a coprire
l'autoradio, tra le bolge di cartelli stradali ipocriti e seminatori
di discordia, quei viaggi erano davvero un Inferno.
«La
famiglia Brambilla in vacanza», diceva sempre mia madre, quando
ancora mi passava i sacchetti anti-vomito invece dei brick di Estathè
– che solo più avanti sono stati formalmente accettati come rimedi
per la chinetosi, trasformando quell'Inferno in un più tiepido
Purgatorio.
Devo
ammettere che il fido Virgilio non ha mai mollato, né quando uno
struzzo del parco di Paliano mi ha rubato il cerotto, beccandomi
dietro l'orecchio durante una gita in prima elementare, né quando i
cerotti allo scopolamina sono stati sostituiti da cerotti normali
inneggianti all'effetto placebo (ho già ampiamente spiegato che la
mia famiglia dice le bugie, dalla Madonnina della 'mella in poi, le
cose non sono mai cambiate: a volte penso che il loro prendermi in
giro sia il contrappasso
per il mio essere patologicamente fissata con la verità).
«Mamma,
è inutile che dici: 'Ma che vogliono tutti questi che mi lampeggiano
e mi suonano?'. Siamo contromano. Questo è un senso unico! Virgilio,
ti prego, diglielo pure tu...»
«S'i'
ho ben la parola tua intesa»,
rispuose
del magnanimo quell'ombra,
«l'anima
tua è da viltade offesa»
«Non
è viltade,
Virgilio, è che siamo contromano nella zona industriale di
Frosinone. Non mi sembra proprio un colpo di genio...»
Mi
ricordo che un agente letterario, leggendo le bozze del mio primo
romanzo, mi disse: «Sai che usi tantissimo il verbo vomitare?».
Se solo penso che Pilathès, I pomeriggi senza thè,
Seduthè spiritiche, Via il denthè via il dolore, Manuale delle giovani marmotthè, Letthère d'amore, Thèlecomando e L'orizzonthè degli eventi sono solo alcune delle pagine di questo blog in cui
parlo del vomitare, mi rendo conto di trovarmi di fronte al mio
inconscio che cerca di dirmi qualcosa.
Se
mia madre sapesse che Sartre ha scritto: «È
dunque questa la Nausea: quest'accecante evidenza?», di certo
risponderebbe: «No, Jean-Paul, tranquillo; è che beve troppi
Estathè». Ma il fatto è che l'evidenza dell'esistenza molto spesso
è davvero imbarazzante.
Come
arrivare nella piazza di un paesino del New Jersey di Roma (grazie
Francesco Pacifico per questa definizione perfetta), con Oris e
Denis, in tre su una Smart, con lo stereo a tutto volume e Calcutta
che canta: «L'ultimo dei Mohicani non so di chiii!».
Chiaro
che poi qualcuno dirà:
«Considerate
la vostra semenza:
fatti
non foste a viver come bruti,
ma
per seguir virtute e canoscenza»
«Virtute
e canoscenza?
Oris ma è Virgilio che parla? Che succede? Con questo volume non si
sente niente...»
«Iris,
è solo Ulisse che incita i suoi a superare le colonne d'Ercole...»
«Ragazze,
che state dicendo? Dite che sembro Ercole? In effetti, uscire con voi
due insieme si può considerare la tredicesima fatica di un eroe
figo, forte e di Roma nord. Però, dai, non fate così le sottone...»
«Ha
veramente detto sottone?»
«Ha
veramente detto sottone. Se vuoi, puoi vomitare...»
E
quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta
ignoranza è quella che v'offende!»
La
verità è che, macchina o non macchina, io non ho mai smesso di
vomitare. Ho la nausea se fa troppo caldo o se fa troppo freddo. Ho
la nausea se sento un odore che non mi piace, un sapore che non mi
piace o una parola che non mi piace. Ho la nausea se mia madre mi
dice «Tranquilla, ci pensa mamma» e poi, con una manovra sbagliata,
si infila in una cunetta di campagna riempiendo di terra la marmitta
della Uno bianca che aveva mio nonno. Ho la nausea se rido troppo, ma
anche se piango troppo. Ho la nausea quando le persone si rimangiano
quello che mi hanno vomitato addosso un attimo prima.
Insomma,
ho la nausea per tutto quello che non riesco a controllare, è questo
che mi vuole dire il mio inconscio: se mi ostino a seguire Ulisse, se
insisto ad andare oltre il limite di quello che è mi concesso
sapere, incontrerò burrasca, traballamenti, un vortice e il mal di
mare mi picchierà col secchiello sullo stomaco.
«Iris,
stai meglio? Possiamo ripartire?», mi ha chiesto Denis, dopo che
aveva accostato per prevenire drammi.
«Sì,
grazie. Abbassa solo un po' la radio, però, ché dentro questa
scatoletta sembra di stare all'Inferno...»
«Va
bene. Allora spengo e parliamo. Sapete perché il Paradiso non è
bello come l'Inferno e il Purgatorio ne La Divina Commedia? Sapete
perché da quando arriva Beatrice tutto è meno entusiasmante? Perché
Dante era un sottone, ecco perché!»
Senti,
2016, cerca di fare il sottone pure tu: incatenati a qualche
terzina di endecasillabi, fai trovare il mare in montagna a mio
padre, permetti a Virgilio di entrare in Paradiso, rendi gli struzzi
allergici alla scopolamina e non farmi rispondere positivamente
all'effetto placebo. Ti prego, non vomitarmi contromano dentro la
prima scuola materna incontrata fuori da quello strano viaggio infernale che è stato il 2015, dammi chiavi,
candele, iniettori, candelette, freni, sterzo, crik, pinze, gomme,
dadi, frizioni e fusibili. Non so niente di motori, visto che nelle
macchine principalmente ci ho vomitato, ma sono cresciuta dentro
un'officina, in qualche modo riuscirò a salvarmi.
P.S.
Per chi vive fuori da Roma Nord, sottone vuol dire uno che
«Aò, certo che ce stai proprio sotto»: stai sotto a una
donna, a una situazione, a un luogo, a una droga, a una cantica
dantesca, all'Estathè, alla vita.