Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

martedì 25 febbraio 2014

Ministhèro per la semplificazione dei rapporti umani

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Il fatto che nessuno mi abbia convocato per assegnarmi una poltrona, in questo nuovo governo, l'ho trovato quantomeno scortese.
Mi chiedo a cosa sia servito guardare tutte quelle serie tv, quei film, ascoltare tutta quella melassa musicale, costruire un altare per il culto di Nora Ephron, consumare ettolitri di Estathè su divani vari a sentire le tristi storie di amiche e amici che non ce la fanno ad avere un rapporto normale, un legame semplice, una storia vera.

«Iris, mi ha chiesto di andare a vivere con lui! Mi ha detto: perché devi buttare i soldi nell'affitto quando puoi venire a casa mia e contribuire al mio mutuo?»

A cosa è servito accumulare tutte quelle informazioni, stilare profili, invitare il dirimpettaio a prendersi un bicchiere di Estathè pur di non sentir partire la quarantaduesima riproduzione consecutiva di Luci a San Siro? Non è che non mi piaccia Vecchioni, eh, anzi: ma quella versione con il sottofondo di pianto a singhiozzo e i lievi singulti che ripetevano il nome della ragazza che lo aveva lasciato, l'ho trovata un filino estenuante.

«Iris tu sei una donna, puoi aiutarmi a capire: lei mi dice che non vuole vedermi, ma poi se rispetto la sua decisione mi dice che non ci tengo abbastanza perché non insisto e se mi presento a casa sua mi dice che faccio sempre quello che mi pare perché non la ascolto. Cosa mi vuole dire, di preciso?»

Poi ho quella referenza di quando ho messo un annuncio per offrire ripetizioni di matematica e mi ha chiamato Marco, uno scaffalista di un supermercato del Pigneto, che mi ha offerto trecento euro per presentarmi a un appuntamento con lui vestita in un certo modo. «Marco», gli ho detto «non si mette coppa di maiale al bancone del pesce. In quale parte del mio annuncio hai letto che per trecento euro avrei indossato una minigonna di pizzo?». Dopo tre minuti di chiacchiere, ho capito che Marco era un ragazzo con evidenti problemi di socializzazione e le nostre telefonate sono andate avanti, ho cercato di aiutarlo: abbiamo parlato del suo rapporto con la madre, del grafico di entrate e uscite delle bottiglie di Estathè nel corridoio Bevande, del fatto che le studentesse che cercano di far quadrare il bilancio con le ripetizioni no che non sono pronte a tutto e della possibilità di farsi aiutare da un terapeuta...
Chissà che fine ha fatto Marco, il nostro rapporto si è bruscamente interrotto quando lo ha scoperto il mio fidanzato di allora che mi ha detto che Marco era un maniaco sessuale e uno psicopatico, che parlava con me nella speranza di convincermi a indossare quella gonna di pizzo e che, se non la smettevo di psicoanalizzarlo, avrebbe telefonato a mia madre, che, a quel punto, aveva tutte le ragioni di chiamarmi Il Muro del Pianto.

Esterno notte/belvedere/primo bacio: «Iris, senti, tu mi piaci, ma prima di iniziare questa relazione mi devi dire per chi voti. Se sei di destra, non possiamo andare avanti...»
Interno giorno/automobile/ultimo bacio: «Iris, senti, devo lasciarti. Tu non sorridi abbastanza...»

Se questo governo mi avesse offerto il Ministero per la semplificazione dei rapporti umani avrei potuto dimostrare a mia madre e a me stessa che quel pellegrinaggio di lamenti, quelle esperienze assurde con gli uomini, tutte quelle amiche e quegli amici che mi tenevano al telefono a ora di cena, non erano stati uno spreco di tempo.
Anche se tutti avevamo perpetrato i nostri errori, c'era un senso più grande, una soluzione finale per ogni cosa. Perfino per quel terribile ferragosto al mare, durante il quale Core non faceva altro che piangere e allora mia madre le diceva: «Non si piange per gli uomini, non ne vale la pena. Vero Iris? Mica tu piangi per gli uomini?» e l'altra nostra amica rispondeva: «No, no, Iris piange per gli uomini. Sono io che non piango perché quando soffro mi drogo» e io non sapevo se il dissenso di mia madre era per me che piangevo per gli uomini o per la mia amica che si drogava e le dicevo: «Hai capito male, mamma. Lascia stare...» e Core continuava a piangere e il bar non vendeva Estathè.

«Iris, ho paura che ti innamori di me. Lo so che tu dici che non succederà, ma...»
«Senti, caro, molto francamente: dormi tranquillo. Io non potrei mai innamorarmi di te perché non metti gli spazi dopo le virgole»
«E questa ti sembra una bella cosa da dire? Non puoi nemmeno immaginare quanto mi hai ferito, mentre io cercavo di difenderti»

Forse, se ci fosse davvero un ministero andrebbe a ramengo come tutti gli altri perché nessuno potrebbe legiferare, semplificare o difendere i garbugli impossibili e ridicoli che siamo capaci di creare quando ci rapportiamo agli altri.
Quel giorno che ho invitato il mio dirimpettaio a prendere un Estathè, gli ho chiesto per quale motivo Luci a San Siro tra tanti pezzi davvero sdolcinati e mi immaginavo mi dicesse che lei era di Milano o che si erano conosciuti a un concerto di Vecchioni e invece lui mi ha risposto: «Perché rivoglio indietro la mia seicento».

L'amore è un sentimento sorprendente.

giovedì 6 febbraio 2014

Vengono dalla parethè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

Se sei giunto a Roma dalla provincia, nella maggioranza dei casi, arrivi a sistemare le valigie nella tua stanzetta di un appartamento condiviso dopo averle preparate in una di quelle case enormi con piano giorno/piano notte, mansarda per gli ospiti, rustico, garage, due/tre bagni, balconi, terrazzino, giardinetto. Una di quelle case che pulirle è una missione impossibile e che tua madre, se lasci il cappotto appeso alla sedia del tavolo della sala, gli dà immediatamente fuoco perché fa disordine. Io, una volta, lasciai in giro un libro che avevo preso in biblioteca e lei lo fece sparire; ancora mi ricordo l'onta di aver dovuto comunicare alla bibliotecaria che lo avevo perso, di averlo dovuto ripagare, mentendo per difendere l'onore di una madre talmente ordinata che era capace di rifare il letto con Oris dentro, se la povera cercava di svegliarsi oltre le nove, la mattina di capodanno.
Niente di tutto questo, però, ti prepara al fatto che, dopo il trasloco, quando i coinquilini ti assegnano il tuo ripiano, nel frigo, tu ti senti improvvisamente solo, derelitto, costretto, pensi a quel mamozio enorme in cui i tuoi tengono provviste per la sopravvivenza a una catastrofe nucleare, pensi che lì dentro deve esserci finito congelato anche il libro che avevi preso in biblioteca, e ti viene la nostalgia, l'ansia per la mancanza di spazio.
«Senti, ma questo ripiano è piano giorno e piano notte? Tutto insieme? E l'Estathè dove lo metto? Guarda che non può stare in orizzontale, non è come mettere un vino in cantina...»

Proprio mentre fai polemica, senti i primi rumori strani, le prime voci, vedi che tutti fanno finta di niente e allora fai finta di niente anche tu.
Toc toc toc... ma vattela a pija n'der... GIORGIOOO... t'ho detto di no...

Nella nostra prima casa da fuorisede, io e Oris avevamo una stanza doppia con le pareti giallorosse, due gialle e due rosse, che la facevano sembrare ancor più piccola della sua realtà già striminzita e i nostri letti erano talmente compressi che li avevamo uniti, ma in ogni caso, Oris cadeva per terra, certe mattine che non prendeva bene le misure, e si spaventava, cominciava a dire: «Auguri, Iris. Auguri!», io pensavo a una commozione cerebrale e invece lei era solo convinta di stare a casa dei nostri genitori la mattina di capodanno.
Non ci abbiamo messo molto ad abituarci allo spazio concesso, io e Oris (purtroppo le millanta scarpe di Oris ci hanno messo di più), ma quello a cui non siamo mai riuscite ad abituarci è il volume con cui parlano le persone. Noi, da che mondo è mondo, abbiamo sempre urlato come aquile: mi ricordo coinquiline che si giravano verso la mia bocca ancora spalancata da uno strillo tipo: «PASSAMI QUELLA PADELLA, ORIS» e mi dicevano con il labiale: «Mi hai spaccato un timpano. Che cazzo ti urli, tua sorella sta qua!»; e tu vaglielo a spiegare che conversi con tua madre a due piani di distanza, che a correre sempre dalla tua camera alla cucina le tue corde vocali si sono rinforzate, che hai un'ugola palestratissima, che non possono pretendere di assegnarle un range di forza predeterminato solo perché loro hanno dei timpani da signorine perbene.
«E poi, questi rumori da dove vengono? Non li sentite anche voi bambini che piangono, coppie che litigano, ragazzini che trascinano le sedie. Toc toc, sbam sbam, drin drin. O è l'Estathè che cerca di parlarmi dal suo ripiano di tristezza o siamo in una casa stregata oppure siamo noi The others e in quel caso io propongo che Oris faccia la parte di Nicole Kidman...»
«I rumori vengono dalla parete», sussurra la tua coinquilina che, per insegnarti a modulare il volume della voce, ti parla sempre come se non si dovesse far sentire dagli altri abitanti della casa, i figli malaticci di Nicole Kidman.

Toc toc toc... ma vacci tu a pijattela... NON SI CHIAMA GIORGIO... mi devi dire di sì...

Gli horror non mi sono mai piaciuti, mi faceva paura perfino Streghe, il telefilm in cui era finita Brenda Walsh dopo Beverly Hills, quindi il giorno in cui una sconosciuta mi ha suonato alla porta dopo che dalla parete era venuto un Adesso vado di là, io ho pensato a uno spirito ignoto e misterioso e ho cercato di evocare le sorelle Halliwell, pure Geri delle Spice Girls se ce n'era bisogno, ma invece di brandire il Libro delle ombre, ho preso dal frigo la mia bottiglia di Estathè piena, per difendermi.

«Salve», mi ha detto questa signora.
«Salve», ho detto io.
«Lei è Oris?»
«No, sono Iris. Come fa a conoscere il nome di mia sorella?», ho risposto preoccupata.
«Sono la vicina di casa. Cioè, in realtà, abito nel palazzo di fianco, ma la vostra camera da letto confina con la mia. Sento tutto quello dite, ogni tanto vi busso ma voi non capite. Ho pensato che venirvi a parlare poteva essere una soluzione...»

Ho chiesto chi era Giorgio, ma non lo sapeva. Ho chiesto se erano suoi i bambini che piangevano, ma ha detto di no. Quindi, in realtà, lei era responsabile solo dei toc toc, il resto dei rumori appartenevano a  quel condominio onomatopeico: le parole che si infiltravano dalle pareti, dal soffitto, perfino dal pavimento, potevano essere di chiunque.
L'acustica cittadina mi ha molto turbato perché, calcolando il volume delle nostre voci rispetto a quelle dei vicini e moltiplicandolo per le strade che si incrociavano in quel quartiere, chissà quanta gente doveva essere a conoscenza dei nostri affari.

«Mamma, questa storia non è sconvolgente?»
«Sei sicura che queste voci le sentono tutti, che non le senti solo tu?»
«Certo che non le sento solo io!»
«Sicura che non ti sei immaginata le conversazioni in cui gli altri ti dicono che le sentono anche loro?»
«Mamma, non sono schizofrenica»
«Mmm»

Se potesse, mia madre mi entrerebbe nella testa con l'aspirapolvere e piegherebbe tutti i pensieri, stirandoli con il ferro e sistemandoli in ordine di colore.

«Almeno, in un cervello ordinato, ben diviso in lobi, la bottiglia di Estathè sta in piedi»
«Mamma, se trovi qualche libro in giro, non farlo sparire, grazie»
«ORIS DORME, VERO?», urlerebbe lei d'improvviso, per superare le pareti del cranio.
«Mamma, almeno per un giorno: possiamo fare che non è capodanno?»