Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

venerdì 30 dicembre 2016

Le cose rotthè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Ci sono periodi in cui sembra che il mondo abbia un bisogno incredibile di colla: calze che si strappano, scaldabagni che perdono, lavatrici che non centrifugano, wi-fi che spariscono dalla vista del computer in continuazione. Tutto si disfa, i giorni vanno in frantumi, le settimane sembrano depositi di cocci e i mesi diventano armi inceppate che ci rigiriamo nelle mani, chiedendoci come potremo mai usarle nelle nostre piccole guerre di quotidiana resistenza.
Di solito, sono così tutti i periodi di festa.
«Percepisco in te davvero molta gioia, molto spirito natalizio e tante speranze per il nuovo anno a venire», mi ha detto ironico il signor Wolf, mentre aprivo la lavatrice per rimettere la cinghia nel suo alloggiamento, in modo che cestello e motore fossero di nuovo collegati. 
«Sono una centrifuga di assoluta felicità. È così evidente?», ho risposto, coperta dal suono della lavatrice che ricominciava a funzionare.
Sono giorni, settimane, almeno un mese che mi asfissia con i suoi metodi di risoluzione dei problemi, con il suo papillon e la sua eleganza immacolata. Mi insegue dappertutto, mi dà ordini, si beve il mio Estathè dentro una tazza e usa il sarcasmo come una frusta mentre mi trascino di riparazione in riparazione. Spesso, imita perfino se stesso in Pulp Fiction.
«Non sono qui per dirti Per favore, sono qui per dirti cosa fare. E se un istinto di conservazione ancora lo possiedi sarà meglio che tu lo faccia. E subito anche...»
E io lo faccio, faccio davvero tutto, ma inizio a pensare che sia colpa sua se c'è sempre un problema, un po' come quel fatto che quando arriva la signora Fletcher in una città, in quella città muore di certo qualcuno. Ecco, quando c'è il signor Wolf che ti tampina, di certo avrai sempre un problema da risolvere.
E infatti lui era con me quando sono andata a trovare Ioris e, prima, mentre eravamo a casa sua a Torino, si è rotto lo scarico del bagno e siamo state a passarci cacciaviti e pazienza in piena notte e, poi, mentre da Fenegrò andavamo a Milano, si è forata la ruota posteriore destra, facendoci sbandare. Era con me quando si sono rotte le macchine di Draco Malfoy e di mio padre e quest'ultimo, oltre ad essere rimasto a piedi nel giorno di Natale, ha anche rischiato di rompersi qualche osso cadendo dal letto tra le risate di madre (che aveva sperimentato un nuovo metodo di passare l'aspirapolvere insieme alla donna che l'aiuta a pulire e, avendo sollevato il letto per poi lasciarlo ricadere a terra malamente, aveva incrinato uno dei piedini della rete, rompendolo).
Il signor Wolf era lì mentre mi si fracassavano amiche a causa di rapporti decennali finiti nel cesso con lo scarico rotto e mentre le gengive di amici senza alcun giudizio venivano aperte da qualche insolente tentativo di crescita. Era lì quando ho detto «Buon Natale» a mia nonna e lei mi ha risposto che il termosifone non si scaldava, che c'erano stati tantissimi furti nel suo quartiere e che le si era pure ristretta l'immagine della televisione – il tutto con un gergo parecchio scurrile.

Ci sono periodi in cui sembra che sia davvero impossibile trovare la colla giusta o il giusto collant, e allora si finisce per usare dello scotch che, se va bene per i pacchi di Natale, andrà bene anche per il mondo, i cocci, il wi-fi e tutto il resto.
«Tua sorella sta facendo dei pacchetti regalo orrendi. Fai qualcosa, ti prego», mi ha detto il signor Wolf, mentre arricciando nastrini rossi e blu di decorazione, pensavo alle mie bellissime forbici bianche, trovate al loro posto nel cassetto, due settimane prima, ma spezzate. Ovviamente avevo dato la colpa a Draco Malfoy che, sebbene fosse uno solo dei tre ospiti che avevano dormito a casa mia la notte precedente al danno e sebbene si fosse ampiamente discolpato, nell'iconografia del mio personale Mercante in fiera, è e sempre sarà un goffo e spaesato Vincent Vega che gira su stesso senza capire cosa diavolo fare e finisce per combinare sempre e solo guai. 
«Signor Wolf...»
«Chiamami pure Winston»
«Allora, Winston, il punto è questo: se vado avanti ad aggiustare tutto quello che consideriamo rotto, non ne uscirò mai. Ci pensi che potrebbe essere che è il voler risolvere questi problemi a crearli?»
«No, Iris. La vita è una Chevrolet verde del 1974 con un cadavere nel portabagagli, un cadavere di cui ci dobbiamo disfare...»
«E se fossi tu il cadavere nel mio portabagagli? Se fosse la mia mania del controllo a far sembrare questo 2016 un cantiere aperto della Metro C?»
«Ma stai facendo tutto questo casino perché è finito lo scotch?»
«Mi sa che il regalo di Natale migliore che posso farmi è sbarazzarmi di te...», ho chiosato, iniziando a vedere la palese asimmetria dei pacchetti che stava facendo Oris. Lei ha colto il dissenso nel mio sguardo, ha preso una pallina dall'albero e me l'ha tirata contro, beccando in pieno la tazza di Estathè del signor Wolf.

Forse il mio Natale sarebbe stato meno ridicolo se a mia madre non fosse venuta una paranoia folle che i ladri sarebbero passati anche da casa nostra o se a mia nonna non avesse preso la mania di dire un sacco di parolacce. L'unione delle due cose ha fatto sì che, per evitare una rivolta piena di insulti, la vigilia l'abbiamo dovuta festeggiare a casa sua, lasciando casa nostra preda facile di furti: così mia madre al grido di «Si possono portare via la casa, ma se prendono il tuo computer poi chi ti vuole sentire!» ha barricato le finestre con scope e sedie e ha convinto mio padre a cercare di infilare il mio computer nella cassaforte dei suoi fucili. Siccome non c'entrava, alla fine è stato messo in una cassapanca della mansarda, in mezzo ai vestiti mimetici di mio padre ma, visto che la cosa non ci dava abbastanza sicurezza, è finito sulla mia schiena.
Forse il mio Natale sarebbe stato meno ridicolo se non mi fossi dovuta portare lo zaino con il computer in giro, come farebbe una ragazza strampalata che non si fida delle mura, delle porte, delle finestre, degli hard-disk esterni e della propria fiducia nelle fasce di tenuta del mondo. O forse sarebbe stato meno ridicolo se, mentre ci scambiavamo i regali, mio cugino non mi avesse chiesto di presentargli Draco Malfoy, dicendomi che lo aveva tanto apprezzato nella sua partecipazione a Pechino Express e facendomi pensare insistentemente alle mie forbici bianche.
Di fatto, mentre io cercavo di aprire i regali senza strappare la carta dei pacchetti, il signor Wolf sbraitava alla vista del caos che il rompere, il tirare, il tranciare buste e fiocchi creava nella stanza.
«Raccogli quei pezzi!», mi ordinava: «Pulisci questo casino, Iris!»
«Winston, ma si fa così con i regali...»
«Winston? Chi ti ha dato il permesso di chiamarmi Winston?»
«Penso in fretta e quindi parlo in fretta...», ho provato dire, imitandolo nella scena di Pulp Fiction, ma senza ottenere nient'altro che una sequela di nuovi ordini e poi una elegantemente immacolata uscita di scena.

Alla fine di certi periodi, quando colla, scotch, corde, nastri, cinghie e signori Wolf non sono più disponibili, l'unica cosa da fare è lasciar andare: bucare tantissimi Estathè, berli e poi accartocciarseli in mano fino a romperli. Forse è una maniera un po' didascalica per sottolineare l'importanza delle cose rotte, ma non sempre far ripartire un termosifone o ristabilire la grandezza desiderata dello schermo per vedere al meglio SL48 sono la cosa più onesta che possiamo fare.
Per questo ho deciso di togliermi il papillon e di far sì che il disordine di Oris non mi tangesse, ho deciso di mollare la presa e di lasciare intorno a me dello spazio non costruito, delle macerie fortemente asimmetriche.
Giuro che non rimetterò dritti i vostri quadri, non sprimaccerò con costanza tutti i cuscini del mondo, non piegherò i vestiti di mia sorella e non sistemerò il caricabatterie di mia madre, lascerò che la lavatrice non funzioni e che i rubinetti perdano, mischierò i due mazzi delle carte del Mercante in Fiera in modo che Draco Malfoy sia sempre più confuso e non lo aiuterò a districarsi tra i suoi guai, mi scorderò di pagare le bollette e lascerò il computer acceso anche quando non sono a casa. Lo giuro. Non sistemerò più niente.
Poltrirò lungo tutto questo cantiere aperto, per ogni giorno di questo dannato 2016.
«E per il 2017?»
«Ah, per quello, stai pure tranquillo, signor Wolf. Domani, a mezzanotte in punto, puoi tornare...»

Il fatto che le cose non cambino, anche quando sono addobbate a festa o completamente frantumate, è una di quelle verità su cui non riesce mai ad arrivare nessuna aspirapolvere.



martedì 8 novembre 2016

L'anti-galathèo (o del come diseducare le signorine perbene)

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Tra i molti problemi presenti nella mia complicata interazione con gli altri, c'è anche quello dell'educazione. Per educazione, sono capace di cedere il mio posto sull'autobus anche a uno che è più vecchio di me solo di sei mesi (d'altra parte, i nati in gennaio mi sembrano sempre più anziani di quello che sono). Per educazione, la settimana scorsa, non ho detto alla parrucchiera che non aveva capito nulla di quello che le avevo chiesto e che mi stava facendo un taglio cortissimo quando avevo passato un sacco di tempo a cercare di farmi allungare i capelli. Per educazione, quando il mio vicino di casa mi ha detto: «Meno male che hai cambiato foto di profilo su FB, nell'altra mi sembravi...», cito testualmente: «...handicappata», io non gli ho risposto: «Ma come ti permetti?», così come ho taciuto quando, qualche anno fa, dopo un'abbondante cena a casa di un amico, nel riposo post-prandiale da amaro e chiacchiere, suo padre si è avvicinato alla poltrona su cui ero spiaggiata e mi ha preso a pinza, tra pollice e indice, un angolo della pancia per poi dirmi: «Allora è qua che hai nascosto tutte le fettuccine che hai mangiato!».
Mi sono messa a pensarci l'altro giorno, mentre facevo aperitivo con la mia amica Lorelai – che è una di quelle giornaliste colte e analitiche che hanno sempre qualcosa di intelligente da dire. Avendo deciso di ordinare da mangiare, Lorelai ha chiesto al cameriere che tipo di prosciutto c'era nel toast e lui, dopo averle risposto confusamente, ha aggiunto: «Ammazza se sei strana...» – oltretutto senza somigliare per niente a Luke Danes. Aspettavo una sua reazione, ma l'ho guardata tacere con stupore – uno stupore che nascondeva sorellanza – e, quando il finto Luke è andato via, lei mi ha detto: «Lo so che avrei dovuto rispondergli male ma, mio malgrado, sono troppo educata».
Praticamente: il tema della mia esistenza.

A ricordarla tutta insieme quella insistita cortesia mi ha molto innervosito ed è stato mentre camminavo agitata verso casa che ho sentito la voce di Giaris che mi parlava.
«Iris, ho appena deciso che sei stata ammessa al mio corso»
«Al tuo corso?»
«Al mio corso, sì. Una specie di stage fatto apposta per te»
«Giaris, non ti sto capendo»
«L'immagine di te che stai zitta con la pancia presa a pinza da uno sconosciuto mi ha spinto a telefonare a tua madre, per richiedere tutta una serie di informazioni: oltre a parlarmi dell'Estathè, del tuo ex fidanzato e del fatto che vorrebbe dei nipotini, mi ha detto che, quando sei di spalle e non lo vedi, tuo padre ti fa il saluto militare e che se lei e Oris dovessero pensare a un regalo di nozze per un tuo ipotetico marito di sicuro opterebbero per una damigiana di Lexotan»
«Grazie per questa bella panoramica di amore famigliare, ma continuo a non capire...»
«Vuol dire che non sei repressa, poco combattiva, mansueta o irrispettosa di te stessa, anzi: sei una grandissima cagacazzi, solo che sei affetta da una forma di educazione un po' debilitante. Questo fa di te la mia candidata perfetta! Ti serve una guida al vaffanculo terapeutico: una specie di manuale che ti racconti gli innumerevoli modi che esistono per lasciar cadere la corona, raccoglierla e infilarla nei pertugi più disparati di chi ti rompe i coglioni. Insomma, grazie a me smetterai di essere una signorina perbene. Anche perché, parliamoci chiaro, Iris, te lo dico come te lo direbbe tua sorella: "Lo sai dove ti porterà tutta questa educazione? Dietro a un frigorifero abbandonato, alla fermata del 360"».

Giaris è una delle persone più brusche, dirette e caustiche che io conosca. Quando le racconto le cose assurde che mi succedono la vedo che le si sfina la faccia in un'espressione di rabbia compressa. «Ma perché non ci sono mai io quando succedono queste cose?», mi dice, guardandomi bere copiose e sgraziate quantità di Estathè per bilanciare le buone maniere. Siccome vive all'estero, il corso è iniziato con lezioni di dissenso per corrispondenza, ma ieri è tornata per un paio di settimane e mi ha incastrato intorno a un tavolo per spiegarmi il suo anti-galateo.
«Esempio: una vecchia col carrello pieno ti passa avanti al supermercato nonostante tu abbia solo una cartucciera di brick e un paio di bottiglie di Estathè a cui sei praticamente abbracciata. Che fai?»
«L'esempio è sbagliato: è anziana, la lascio passare»
«Assolutamente no! Lo capisci che mentre tu hai fretta perché devi tornare a casa a lavorare per non andare mai in pensione, ti sei appena fatta superare da una pensionata che non ha niente da fare e si sbriga perché deve andare a vedere Il segreto su Canale 5?»
«E che dovrei fare, allora?»
«Mi scusi signora, ma ci sono prima io. Me lo avesse chiesto, l'avrei anche fatta passare perché sono una ragazza ben educata. Ma proprio in quanto fan dell'educazione, mi vedo costretta a chiederle di tornare al suo posto»
«E se lei mi dice che non mi aveva visto? Che ha la cataratta, il cane legato fuori o che è incontinente?»
«Ma perché quando Oris vuole saltare le file la massacri e invece fai passare 'sta vecchia che, tra l'altro, nel carrello ha un thè deteinato sottomarca?»
«Oris mica è incontinente!»
«Mi sa che tu sei una guerra persa...»

Siccome nell'esercitazione pratica ho fatto schifo, Giaris è passata alla teoria, che è la mia parte preferita, perché io adoro le sue storie, a volte le chiedo di raccontarmele di nuovo anche se le conosco già – soprattutto quella del venticinquenne vergine rimorchiato durante la festa per il suo penultimo compleanno, che lei ha cacciato di casa di fronte alla scoperta, urlando: «Truffatore! Io ti denuncio! Mi hai rovinato la serata!».
Non so se nel suo talento per lo storytelling c'entra il fatto che è una sociologa, ma so che quando mi ha detto: «Sono tornata a Roma perché mi mancavate, sì, ma soprattutto perché mi mancavo io, la me di quando sono qua» ho capito quanta bellezza riesce a sprigionare l'insolenza quando è frutto di pensiero. Giaris mi ha spiegato che, a questa cosa dell'estremismo nella franchezza, del profondo Sticazzismo della tua sensibilità, piuttosto impara a stare al mondo, ci tiene soprattutto perché lei ha sperimentato anche l'altra metà del cielo: come tutti, Giaris, per un periodo si è persa.
«Una cosa tremenda tipo quella che fai tu con la tua corte dei miracoli, che i problemi degli altri erano diventati più importanti dei miei, che ero gentile pure quando ero triste... Insomma: una situazione abominevole»
«E che hai fatto?»
«Mi sono ricordata delle mie tre i: il tema della mia esistenza»
«Le tue tre i?»
«Sì, mi sono detta che, nonostante tutto quello che mi succede nella vita, io voglio continuare a essere Inadatta, Inappropriata e Inesportabile»
«E ce l'hai fatta?»
«Secondo te?»
«E che pensi di me? Ce la posso fare?»
«Guarda, io direi che intanto mi dai il numero della tua amica Lorelai, che mi serve un altro candidato...»

Quando dico a mia madre che è colpa sua se sono troppo educata, lei mi risponde che è una frase che non vuol dire niente e che, comunque, alla fine, per quanto lei mi abbia sfinito con i suoi «Saluta zio. Abbraccia zia. Vai a giocare con tuo cugino. Non trattare male l'amica di tua sorella», per quanto mi abbia impedito di sedermi a tavola in pigiama o alzarmi senza chiedere il permesso, mangiare con il piede destro sulla sedia, impicciarmi di cose che non mi riguardavano e bere l'Estathè direttamente dalla bottiglia, per quanto lei sia stata severa, adesso sono io che scelgo di essere come sono, ogni giorno della mia vita.
«E poi, amore di mamma, dentro quella signorina perbene che sei si nasconde un capo di stato maggiore. Tuo padre dice che sei un generale di corpo d'armata e che, quando arrivi tu, noi diventiamo tutti soldati semplici. Se fossi pure maleducata, saresti incontenibile...»
Il punto è che se cominciassi a non cedere i posti sull'autobus e al supermercato, a saltare le file, a incazzarmi con i parrucchieri che sbagliano, con i vicini di casa quando straparlano e con la scortesia dei padri degli amici, non sarei più io e finirei per mancarmi: questo mi ha detto Giaris per spiegarmi perché era proprio nel fallimento della mia diseducazione il senso di tutto; mi ha detto che sono una rompicoglioni prepotente ma che poi dico permesso, scusa, grazie, prego ed è stato un piacere e che è questo il mio modo di essere Inadatta, Inappropriata e Inesportabile.
«Allora sono salva?»
«Oh, ma lo sai che c'ha ragione tua madre? Con te ci vuole una damigiana di Lexotan...»
«Dici così perché tanto lo sai che sono troppo educata per risponderti. Comunque, grazie di tutto...»
«Ecco, appunto: pure grazie m'hai detto... Meglio che vado a telefonare a Lorelai»

Quindi sono una guerra persa, dietro un frigorifero abbandonato, alla fermata del 360, ma non potrebbe andare meglio di così. Anzi, forse sì. Potrebbe piovere.

giovedì 29 settembre 2016

Il fuoco amico delle richiesthè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Nell'ultima settimana mi è stato gettato contro parecchio discredito per il fatto che ho deciso di riciclare una vecchia TV a tubo catodico e trasformarla in un tavolino («No, no, ma bello il salotto così: sembra Malagrotta...», ha commentato UkuLele, il mio amico architetto), ma sono sicura che questo non intaccherà in alcun modo il ruolo che da sempre rivesto nella vita dei miei amici: facendo parte della categoria delle persone molto affidabili, infatti, di solito vengo sommersa da richieste di ogni tipo.
Ti leggi questo articolo prima che lo spedisco? Puoi tenere a casa tua un mazzo di chiavi della casa di mio padre per ogni evenienza? Questa è la mia password Facebook: dovessi morire, entri e cancelli il mio profilo? Puoi dividere tu il conto del ristorante? Visto che hai acceso il ferro, mi stireresti questo vestito? Qua bisogna riprogrammare il decoder, ci pensi tu? Davvero mi stureresti il lavandino? Mi tieni questo ciuffo di capelli mentre mi faccio la treccia?
Sono ben consapevole quanto questa cosa dell'affidabilità sia zero sexy, ma non posso farci niente: vorrei essere capace di arrivare in ritardo, scordarmi di richiamare, essere misteriosa e irresponsabile, invece sono quella verso la quale tutti si girano se comincia a piovere perché sono quella che si porta sempre dietro l'ombrello.

Per darmi una giustificazione, mi piace pensare che sia colpa della mia famiglia, che il morbo dell'affidabilità mi abbia colto perché a casa mia si respira ossigeno, Estathè e mania del controllo: mia nonna è un motorino di ansia, mia madre un'indefessa risolutrice di problemi e entrambe delle pianificatrici folli, di quelle che ancora non sei scesa dal treno e già ti stanno chiedendo quando tornerai la prossima volta, a che ora, cosa vorrai mangiare, se pensi che per quel giorno ti sarà passata questa tua nuova avversione per la lasagna o almeno questo tuo insensato amore per il vestito blu che porti, che gli sembra una vestaglietta di bassa fattura che si spera ti avranno pagato quelli del negozio per comprare. Come si fa, non dico a non essere, ma almeno a non tentare di essere precisa di fronte a cotanta solerzia nell'ottenere risposte?
Ma questa giustificazione non regge, lo so, lo sappiamo tutti: se veramente l'affidabilità venisse dalla mania del controllo dei parenti, allora anche mia sorella avrebbe dovuto esserne affetta, ma visto che quel genio incontrastato dello scaricabarile, quella rallentatrice perpetua di tempo, quell'assorbitrice famelica di quasi tutte le mie energie (faticosamente ottenute grazie al mio impianto idrovoro interno di recupero di ingenti quantità di Estathè), insomma, visto che Oris è nata così libera da ansie e imposizioni, un essere così fluttuante nel mondo rigido delle priorità, così leggero sul limine delle scadenze, allora vuol dire che pure per questa cosa, come per tutte le altre, devo prendermi le mie responsabilità.

Da un mese a questa parte, però, il mio senso del dovere è stato messo a dura prova, visto che mi sono arrivate quasi 1000 richieste di amicizia su Facebook, a pacchi di cinquanta al giorno, certe volte cento – ovviamente, senza nessun motivo apparente (il mio amico Bob ha anche cercato su Google se c'era una mia omonima che faceva la pornostar, ma non ha avuto riscontri). Di fatto, quello che è successo è che non sono riuscita a tirarmi indietro di fronte alle domande, ai commenti, ai ringraziamenti per aver accettato l'amicizia.
Ciao, grazie per l'adesione amicale. Davvero fai la scrittrice? Ma vivi di questo? Sei molto carina, sei sposata? Grazie per l'amicizia, hai guadagnato un poeta. Di dove sei? No, ma a parte la città, in che via abiti? Io vengo dall'India, ma ho un ufficio anche a Roma, tu come estai? Potresti condividere la mia pagina fan sul tuo diario? Low&Secrets in onda (21.10 su Rai3): buona visione. Vorrei tanto conoscerti – perdona l'impudenza, ma è colpa della tua avvenenza. Mi presento: faccio l'impiegato, ma sono un militante anarchico. Posso proporle la mia attività di network e farla guadagnare? Grazie per la tua fiducia. Namastè. Colgo l'occasione per porgerle cordiali saluti di serena notte.
Ho cercato di rispondere sempre a tutti, di essere gentile, di spiegarmi, di dissimulare: «Grazie a te!», «Abito a Roma», faccine con il sorriso, «A presto!», ecc. Affidabile, seria, fiduciosa. Mi sono fermata solo alcune volte, proprio quando i messaggi mi hanno lasciata senza parole.


«Vabbè, ma mo perché a lui non rispondi? Forse ha saputo della tua passione per il riciclo dei mobili. E poi guarda che questo water starebbe benissimo con il tavolino a tubo catodico che hai fatto...», mi ha detto UkuLele.
«Non farmi venire sensi di colpa, per piacere, che coi sensi di colpa riesco a essere peggio che col senso del dovere», gli ho risposto, «e poi tra il senso del dovere, i sensi di colpa, la gentilezza, l'affidabilità, il riciclo e la dipendenza dall'Estathé rischio davvero di diventare troppo sexy...».
«Ma infatti guarda che mi sa che Nonno Libero ti ha appena inviato una richiesta di amicizia».

Quando non riesco a capire perché succedono le cose, rischio di impazzire; quando non mi so dare una motivazione, quando non riesco a trovare un senso, comincio a fare schemi, a dividere le cose in gruppi di appartenenza, cerco di ripercorrere all'indietro il sentiero di guerra che mi ha portato in mezzo al bombardamento: perché il fuoco pure se è fuoco amico è sempre fuoco. Così, in questo caso, ho cercato di individuare dei filoni, per capire se c'era potuto essere un innesco di catene di richieste che aveva moltiplicato questo strano interesse per il mio profilo.
Mentre compravo le chiavi a brugola adatte ad aprire la TV e il signore della ferramenta sotto casa mia si assicurava del fatto che non volessi spaccare il tubo catodico con una fiamma ossidrica facendo saltare in aria il mio palazzo e quindi anche il suo negozio, ho cominciato a fare delle suddivisioni. Ho ricevuto principalmente:
  • richieste di amicizia di sedicenti poeti e scrittori (individuabili dal fatto che la parola poeta o scrittore o scribacchino è messa tra parentesi dopo il nome e il cognome);
  • richieste di amicizia di comunisti (immagini profilo con falce e martello o pugni chiusi);
  • richieste di amicizia di rimorchioni cinquantenni (foto profilo con occhiali da sole e dicitura SINGLE in grande evidenza tra le informazioni del Diario);
  • richieste di amicizia random di cantautori, fabbri, osteopati, psicologi, venditori di roba per dimagrire che mi hanno invitato a fare mi piace alle loro pagine o mi hanno aggiunto ai loro gruppi (gruppi che ho abbandonato immediatamente e a cui loro mi hanno riaggiunto un minuto dopo).
Ma se non c'è nessuna pornostar che porta il mio nome, se non faccio parte di nessun gruppo politico combattente, se non compro, vendo, ammicco o pubblicizzo pagine, che diavolo può essere successo? Non è che si è sparsa la voce che sono affidabile e che tutta questa gente mi vuole chiedere di sturare lavandini, prendermi l'eredità dei propri profili Facebook, dare articoli da correggere o vestiti da stirare?
Nell'impossibilità di capire, ho deciso di fare qualcosa di pratico: ho aperto la TV e con un sommo ed enorme rispetto per il tubo catodico, ho cominciato a sfilare, sganciare, smontare e scastrare, sentendomi man mano sempre più gioiosa, agguerrita, leggera, fino a non sentire più il trillo del telefono che segnalava l'arrivo di nuove richieste d'amicizia. Quando è entrata Oris, mi ha trovato con le braccia dentro al televisore, la faccia e le mani sporche di qualcosa di scuro, di fianco a un cumulo di schede elettroniche, resistenze, condensatori, altoparlanti, diodi, transistor, pulsanti, cavi e fili di vari materiali.
«Oggi è il giorno più bello della mia vita!», le ho urlato.
«Mamma», ha sussurrato lei al telefono, «la lasagna e il vestito blu sono l'ultimo dei nostri problemi».

Siccome sono una persona affidabile e fiduciosa, ho accettato e continuo ad accettare (quasi) tutte le richieste d'amicizia che mi vengono inviate su Facebook, non mi tiro indietro se devo tenere una ciocca di capelli di Oris quando decide di farsi una treccia, conservo le chiavi di casa del padre di Pallax e riprogrammo il decoder di nonna Berta tutte le volte che torno a casa. Combatto, regalo spazio sotto al mio ombrello quando piove, resisto.
«E hai pure lasciato un buco di lato alla televisione. Quindi oltre che come tavolino, la utilizzerai anche come contenitore di libri?», mi ha chiesto UkuLele, sempre più sconvolto.
«Certo! Adesso la decoro, pure!», gli ho risposto con entusiasmo, appoggiando con cura un bicchiere di Estathè sul ripiano convesso creato dallo schermo.
«E niente, è ufficiale: la discarica di Malagrotta ti ha appena inviato una richiesta d'amicizia».
«Accetto subito! Sai lì quanti water ci trovo?».

Non importa come, ma le tue responsabilità, alla fine, trovano sempre il modo di raggiungerti. 

lunedì 22 agosto 2016

Thèoria e pratica dell'invisibilità

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Fin da piccola, ho sempre sperato di imparare a sparire, pensavo che avere un potere del genere mi avrebbe salvato da tante situazioni. Riuscire a smolecolarmi davanti ai momenti di imbarazzo o di pericolo, diventare trasparente quando facevo incazzare mia madre o liquefarmi davanti a un minestrone che non volevo mangiare mi sembravano tutti obiettivi che valeva la pena di inseguire.
Non essendo in possesso di un dispositivo di occultamento, un mantello dell'invisibilità, una pozione o una sistemazione speciale di lenti che mi rendesse invisibile, mi sono dovuta adattare alla realtà dell'essere una babbana non ammessa a Hogwarts e il mio addestramento verso il raggiungimento del potere è passato attraverso propositi, progetti, ettolitri di Estathè e almeno un tentativo pratico di sparizione.
Avevo dieci anni ed ero andata in campeggio a Civitella Alfedena con un gruppo organizzato da un'associazione del mio paese: ho pensato che il primo viaggio da sola era un'occasione immancabile per fare una prova tecnica. Quasi ogni sera ci portavano in paese per una passeggiata e tutti si mettevano in fila davanti al telefono a gettoni del Bar del Lupo per chiamare i genitori. Tutti tranne me. Sparita. Dopo una settimana, il signore che era dietro al bancone ha detto: «Chi è Iris?» e mi ha consegnato un biglietto che conteneva un messaggio minatorio da parte di mia madre: se non l'avessi chiamata immediatamente, turpi cose mi sarebbero accadute.

«Ah è così che hai fallito il tuo primo esperimento? Comunque: piacere, io mi chiamo Pezzetta...» mi ha detto una voce da dentro l'orecchio.
«Ciao Pezzetta, sì: è così che ho fallito. E avrebbe fallito chiunque di fronte all'ira di mia madre, che conosci anche tu, visto che viviamo insieme da nove anni... o no?»
«Cavolo, è vero. Ora mi ricordo. Scusami, ma ogni tanto mi confondi con la tua invisibilità!»
«Beh, ne dovrei gioire, riuscire a scomparire nei meandri della tua memoria è un bel punto da segnare nel mio carnet, ma c'è quel fatto che tu sei fortemente rincoglionito, quindi non me la sento di prendermi tutto il merito...»
«Vero. Questa è l'altra possibilità...»
«Ti ricordi quando pure tua madre faceva fatica a individuarmi con precisione? Mi chiamava Lasorelladioris, tutto attaccato, una specie di patronimico che mi designava sulla base della mia caratteristica più evidente: mia sorella»
«Sai che non sono certissimo che adesso conosca il tuo nome? Te lo dico per onestà intellettuale...»

Fallito il tentativo di sparizione, ho capito che la parte pratica, quella di azione e di istinto, non era la caratteristica sulla quale puntare, quindi ho cominciato a giocare di riflessione, ho sviluppato: un certo tipo di silenzio meditativo, una posizione defilata del corpo all'interno degli spazi comuni, la gobba (in modo che la mia testa non spuntasse fuori quando camminavo in gruppo con le mie amiche, visto che ero la più alta), il canto in playback, l'attenzione nel non far sbattere o cadere le cose, il non dare mai nell'occhio. Insomma, per raggiungere il grado massimo di potere ricercato ho scelto la milizia più aggressiva: la timidezza.
Con il mio esercizio solitario sulla bicicletta ellittica dei rapporti umani, ho ottenuto le mie prime vittorie: il non venire interpellata durante le discussioni, il non essere riconosciuta mai dalle persone – che è da allora che mi si ripresentano di continuo («Piacere, Asdrubale», «Asdrubale, io sono Iris, ci siamo già conosciuti bla bla, ti ricordi?», «Ah sì. Forse mi ricordo», con uno sguardo pieno di smarrimento da replicare all'incontro successivo) e poi l'essere completamente ignorata da tutti i ragazzi di cui ero innamorata (sì, alle elementari Marco mi telefonava tutte le sere, ma solo perché era un maniaco del controllo peggiore di me e voleva essere sicuro di aver fatto tutti i compiti).
Poi le conferme sono diventate più consistenti con lo sbocciare prima del rosso arroventato e poi del biondo targaryen dei capelli di Oris: la sua presenza è diventata di tale peso che quando mia madre diceva a qualcuno che una delle sue figlie faceva la scrittrice, nessuno pensava che potessi essere io, tutti guardavano verso di lei e le chiedevano: «Che bello! E che cosa scrivi?»; Oris ovviamente, che è conoscenza delle mie aspirazioni riguardo all'invisibilità e si presta sempre a interpretarmi quando è necessario, rispondeva raccontando tutto per bene (ha sempre avuto talmente tanto talento nel farlo che, una volta, mi hanno addirittura consegnato una pergamena con scritto il suo nome invece del mio). 
Poi, ovviamente, ad oggi, tutti i cassieri, le commesse, i baristi, i ragazzi che vendono la frutta su via Britannia e il pizzaiolo davanti casa nostra, mi salutano solo se sono con lei e quando capita – raramente – che mi riconoscono e decidono di rivolgermi la parola anche in sua assenza, comunque mi dicono: «Ciao. Come sta la biondina?».

«Però ora i social network ti hanno rovinato un po'...», mi ha detto Pezzetta, sempre da dentro l'orecchio.
«Vero. Ora tra selfie, geolocalizzazioni, foto in cui mi taggano anche se sono in fondo e tutta accartocciata su me stessa, ho perso molto potere: sono molto più visibile»
«Guardiamo il lato positivo: ora che è tua amica su Facebook, forse mia madre lo sa come ti chiami. Forse...»
«Già, forse. Ma più che altro, dimmi un po': adesso che sei andato via di casa per trasferirti a Londra, ricomparirai nella mia vita solo come voce fuoricampo?»
«Maybe»
«Che stronzo che sei! E poi non parlare inglese che Oris – lo sai com'è – fa ancora in tempo a denunciarti...»
«Comunque, scusa se non mi sono presentato, io mi chiamo Pezzetta, molto lieto di fare la tua conoscenza!»

Anche in questi tempi sovraesposti, in cui sembra che l'importante sia solo l'esserci, l'esserci, l'esserci costantemente, l'invisibilità continua a essere un potere importante, un'arma che, quando siamo noi a decidere, può essere sempre usata a nostro vantaggio – come scappatoia, come sistema di tutela o come metodo per sperimentare la libertà - ma, quando non siamo noi a decidere, quando la subiamo, ci deflagra come una bomba nel petto. Capito, Pezzetta?

Mentre ero a Riccione, qualche settimana fa, una cameriera si è totalmente dimenticata la mia ordinazione: ha portato sia da bere che da mangiare solo per due a un tavolo in cui eravamo sedute io, Oris e Wendy e siccome nemmeno vedendomi senza pranzo si è chiesta se si era scordata qualcosa o se io volessi qualcosa ed è andata subito via, ho colto la palla al balzo per spaventare Wendy. «La verità», ho detto, «non è solo che riesco ad essere invisibile. La verità è che io non esisto, sono solo una vostra allucinazione; gli altri non mi vedono...». Oris si è messa subito a ridere, ma Wendy no: Wendy, per qualche frazione di secondo, mi ha fissato, ci ha creduto, si è chiesta se fosse vero. E allora a me, che ne volevo ridere, la paura mi è rimbalzata contro e mi sono detta: «E se fossi come Cole ne Il sesto senso? O come un membro della famiglia Stewart in The Others? O come la nipotina di Charles Herman nel film su John Nash? O come Tyler Durden in Fight Club?».
Quindi mi sono spaventata, ho rincorso la cameriera e le ho detto: «Scusami, ti sei dimenticata la mia ordinazione. Forse non ti ricordi, ma ti avevo anche chiesto un brick di Estathè, che ora è diventato particolarmente urgente...»
«Oddio, scusami tu!», mi ha risposto lei. «In che tavolo sei seduta?».
«Quello lì in fondo, con le due ragazze».
«Ah, ma certo! Oddio, ci eravamo anche presentate. Tu sei Lasorelladioris, vero?». 
Io ho tirato un sospiro di sollievo e le ho detto: «Sì, sono io! Sai che mia sorella fa la scrittrice?».
«Certo che lo so», ha risposto lei.
Allora il mondo ha ricominciato ad avere senso.


martedì 5 luglio 2016

Agenthè patogeno

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

C'era un periodo, un paio di vite fa, prima che Core si trasferisse a Bruxelles e poi a Washington, durante il quale si era fissata con la metamedicina e con alcuni libri che ti aiutavano ad ascoltare il tuo corpo. In quel periodo, qualsiasi sintomo comparisse sul nostro comune pianerottolo, qualsiasi malattia occorsa in una delle due case, se non era risolvibile con il cofanetto di Sex&TheCity o con una bottiglia di Estathè, diventava un messaggio da decodificare: una caccia al tesoro da giocare all'interno del nostro organismo e della nostra psiche. Una stagione bizzarra, insomma, di quelle da rinnegare e seppellire nelle zone più profonde del nostro inconscio. E invece.
E invece, in questi giorni non ho fatto altro che pensarci perché è piena estate, a Roma non si respira e io ho una faringite cronica che ben due medici diversi hanno definito «arrabbiata», dicendomi che me la porto dietro da mesi (forse da novembre dello scorso anno, quando sono salita sul palco dello Spazio Tondelli, al Premio Riccione, a tossire e sproloquiare senza voce sui buchi neri e sui viaggi nello spaziotempo).
Oris, come spesso accade, non è molto di aiuto: lei detesta il fatto che io mi ammali, dice che tossisco in maniera scortese, che la febbre è sempre inelegante e il mio faticare a deglutire è un torto che non riesce a perdonarmi. Il solito atteggiamento assurdo e contraddittorio di mia sorella che dissimula i miei mali ma, essendo ipocondriaca, non fa che trovare sintomi in ogni sua azione quotidiana.
[«Iris, ho uno sfogo sulla schiena. Cosa sarà mai?», «Hai corso sulla cyclette con le scarpe da tennis e un vestitino con le zebre. Che cosa pensi che sia?», «Una psoriasi? Una cheratosi? Una ittiosi vulgaris?», «No, Oris, è solo che sei cretina. Devi utilizzare indumenti sportivi, come fanno tutti gli altri», «Ah, quindi non basta fare sport, devo anche andare nei camerini di Decathlon? Dai, Iris, ho già questa cosa sulla schiena, non infierire: controllami i battiti cardiaci, piuttosto...», «Sai che forse sei tu uno dei motivi per cui la mia gola è così arrabbiata?»].
Che poi io davvero non capisco perché devo passare un'estate su due a spruzzare spray, ingurgitare farmaci, fare diete per l'esofagite, coprire la gola, non esagerare con l'Estathè, tutelare il mio corpo dallo stress. Eccheppalle!
«Non dimenticare che devi anche unirti al pullman organizzato dal centro anziani per andare alle terme di Ferentino...», mi ha detto mia madre, nel picco massimo del suo umorismo.

«Dai, Iris, non ti lamentare! Alla fine, ti stiamo facendo compagnia. Gli agenti patogeni sono tutti simpaticissimi...», mi ha sbeffeggiato Nabot, mentre mi facevo l'aerosol. Nabot è il capo dei virus di Esplorando il corpo umano, quello con la scucchia e i capelli strani – che sembrano quelli di Oris quando si fa le pettinature anni cinquanta.
«Siete tutti simpaticissimi? Prova a dirlo a Pezzetta, che si è mangiato una pizza con una 'nduja – probabilmente andata a male – che gli ha fatto baldoria nell'apparato digerente per i successivi tre giorni, oppure prova a dirlo a Frederick e Marco Polo, la mia squadra tanto ardimentosa quanto cagionevole del campionato dei gruppi WhatsApp più strafatti di antibiotici. Anzi, meglio, parla con Core, che ha le lumache che le stanno distruggendo l'ibiscus e il basilico, due cani che non vuole mettere in pericolo usando roba chimica e una sola possibilità di salvezza: l'acquisto di anatre corritrici indiane...», ho risposto, urlando da dentro la mascherina per superare il rumore dell'aerosol, mentre sudavo beclometasone dipropionato e pazienza.
«'Nduja? WhatsApp? Lumache? Anatre corritrici indiane? Ma che stai dicendo?», ha riso Tignoso, il capo dei batteri di Esplorando il corpo umano, quello con i basettoni, la scrima e il possente corpo azzurrino.
«Sto dicendo la verità, Tignoso, come sempre. Qua, dove ti giri giri, incontri un agente patogeno», ho sentenziato con calma, togliendomi la mascherina e guardando negli occhi entrambi quei coatti di microrganismi.
«Ah si?», mi hanno risposto loro, accendendosi una sigaretta a mo' di sfida.

La verità è che ci sono periodi – non due vite fa, non qualche serie di Sex&TheCity precedente, ma proprio ora – in cui la vita sembra piena di infezioni, virulenze, invasività, ossessioni che ti si attaccano come funghi, sentimenti che ti combattono contro manco fossero malattie autoimmuni, idee con troppo ossigeno a infiammarti la cute e mastodontiche epidemie di insensatezza, e allora succede che torni indietro nel tempo, fai un viaggio spaziotemporale che nemmeno Piero Angela nel fegato e, in bilico su una ramificazione della vena porta, chiami Core e le chiedi se può cercare anche lei, da qualche parte, altri tipi di risposte.
Per farmi contenta, Core si è dovuta arrampicare sullo scaffale più alto della sua libreria di Washington, quello in cui mette i libri che vuole nascondere, così che gli ospiti non riescano a leggere i titoli – che deve essere l'equivalente americano di una zona profonda dell'inconscio. Mi ha detto che, secondo la metamedicina, a guardare dentro la mia faringe arrabbiata con occhi diversi da quelli dell'otorino, ci si trovano: avversità al cambiamento, rabbia trattenuta e creatività inespressa. Quelle cose che, alla fine, il punto non è che incontri virus dove ti giri giri, è che sei tu l'agente patogeno di te stesso e quindi c'è ben poco da borbottare.

Come spesso mi succede quando sono estenuata dal caldo, dagli ostacoli e dalle mille cose da risolvere, mi sono detta di provarle tutte: ho pensato che, tra un aerosol e un altro, tra una bustina per ripristinare le difese immunitarie latitanti della mia gola e un bicchiere di Estathè che è sempre la panacea di tutti i mali, potevo anche provare a capire se c'era davvero qualcosa di trattenuto dalle mie corde vocali, qualche forma di risentimento o metamorfosi rimasta impigliata nella mia faringe a provocare afonia, dolori e colpi di tosse; quindi mi sono avvicinata al computer per aprire una pagina di Word e provare a scrivere una lista di cose, ma ho trovato Oris, seduta alla mia scrivania, praticamente sconvolta.
«Iris, temo di aver preso un virus!», mi ha detto.
«Ancora? Non è niente Oris, le bollicine sulla schiena si sono spente. Basta con questa ipocondria!».
«Ma non parlo di me, è successo qualcosa al computer. Chiaro che sono stata io, sarò virale, gli avrò passato un microbo, ma non funziona, Iris. Non funziona più...».
«Oris, lo sai che c'è tutta la mia vita dentro a quel computer?», le ho detto scoppiando in lacrime. «Come facciamo se si è rotto?».
«Accetteremo la perdita. Sono sempre i migliori che se ne vanno...», mi ha risposto lei, asciugandomi la faccia.

Nabot e Tignoso se la sono risa alle mie spalle per entrambe le notti che ho passato in bianco, sudata e malaticcia, a cercare di combattere il terribile invasore a suon di antivirus.
«Dovresti provare con le anatre corritrici indiane!», mi dicevano mentre io urlavo contro mia sorella che erano colpa sua tutti i mali del mondo e che meritava di essere chiusa dentro un camerino di Decathlon, sommersa di tute e fantasmini per i piedi.
«Beh, almeno ti è tornata la voce!», mi rispondeva lei per dissimulare.
La mattina del terzo giorno, quando la situazione sembrava sotto controllo – ma non si poteva ancora dire – è stata Oris che, con il capo coperto di cenere, ha portato il computer in un centro di assistenza per un controllo finale.
Almeno lui è guarito.
Per quanto riguarda me, invece, ci vorrà ancora del tempo.
Nabot e Tignoso mi hanno detto che non se ne andranno fino a che non saranno pronti per la prova costume, quindi io, loro e Oris stiamo facendo i turni sulla mia nuova cyclette, anche se «cyclette» è un modo improprio di chiamarla, visto che è anche – e più di tutto – una bicicletta ellittica.
«Ellittica come le ellissi geometriche, le ellissi temporali e quelle linguistiche», dirò ai miei prossimi amici anziani, sul pullman diretto alle terme di Ferentino.
Io, Iris Versicolor, l'agente patogeno di me stessa.

venerdì 3 giugno 2016

La corthè dei miracoli

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

A volte penso che tutto questo ammasso sia colpa di mio padre. Ho evidentemente risentito della sua filosofia di sistemazione e riutilizzo delle cose che gli altri pensano che si dovrebbero buttare: per questo sono messa così.
Anche se non è uno di quegli accumulatori seriali che vivono sepolti in casa perché non riescono a liberarsi nemmeno della cenere delle loro sigarette o delle bucce dei kiwi, posso dire con una ragguardevole percentuale di verità che mio padre non butta mai niente: ha una stanza molto grande, nel piano interrato che funge da garage nella mia casa d'infanzia, in cui ha organizzato un sistema di archiviazione delle cose passate – passate di moda, passate da altri, trapassate da un chiodo o ripassate da una mano di vernice.
Valigie, sci, canne da pesca, gli attrezzi da scarparo di nonno Peppino, giacche con le spalline, quaderni delle elementari, una foto enorme di Coppi che passa la borraccia a Bartali, mobili disastrati che sostiene di voler ristrutturare e poi cose mie, di Oris e di mia madre: roba che avevamo deciso di buttare ma che lui ha in qualche modo salvato.
Mi ricordo scene di: «Mamma, non è che hai degli orecchini verdi?» oppure «Mi servirebbe proprio una pochette rossa!» o anche: «Oris, l'ho data a te quella mia gonna plissettata grigia?», scene che finiscono con mio padre che torna fiero dalla stanzona del piano interrato con in mano quello che stavamo cercando: una specie di borsa di Mary Poppins di una trentina di metri quadrati.
Per questo, durante l'anno in cui non sono riuscita a trovare l'Estathè Ice perché sembrava fosse distribuito solo nelle località di mare – ma chiaramente non in quelle in cui sono stata io – ogni tanto mi sono lanciata ad esprimere il mio desiderio davanti a lui, sperando che sarebbe andato a scovarlo in garage. Invece niente: alla fine, il ghiacciolo di Estathè che sognavo come compagno estivo me lo ha portato Core, nel suo primo ritorno in Italia da quando vive a Washington – lo so che è passata in un supermercato di Latina prima di venire da me, ma mi piace pensare che quei brick slanciati abbiano attraversato l'oceano.

Una volta ottenuti, gli ho dovuto ricavare un posto nel mio freezer, che non è molto grande, quindi ho dovuto spingere indietro i funghi congelati, tirare fuori la bottiglia di Amaro del Capo e gestire una torre di vaschette di vario tipo. In tutto quel trambusto, non ho creduto che fosse davvero un grugnito quello che avevo sentito: in una casa ci sono un sacco di rumori, mi sono detta. Il ghiaccio scricchiola, le cerniere degli sportelli cigolano e Pezzetta bofonchia, mi sono detta, e poi Oris è una radio a trasmissione continua.
[«Non ho capito, Oris!», «Ma infatti non sto parlando con te», «Ma ci siamo solo io e te, in casa! Con chi stai parlando?», «Da sola, ok? Posso avere la mia privacy?», «Certo che puoi, basta che utilizzi quell'antico metodo in disuso che fa rimanere le cose solo nella tua testa, credo si chiami pensare...», «Non la sopporto proprio», «Non così, Oris. Se fai così, ti sento ancora...»]
Poi, però, eccolo di nuovo. «Grrr. Sgrunt. Mmm...»: ha borbottato La Cosa, sfruttando tutte le onomatopee a sua disposizione e allora ho capito. Non avendo una stanza per lo stallo affettivo, l'accozzaglia di viandanti passati e presenti, avventori saltuari o ospiti fissi che affollano tutti i miei canali comunicativi, finiscono per posizionarsi a caso all'interno della mia vita e così anche stavolta: i mugugni venivano dal congelatore.
Mia madre sostiene che alla base di queste presenze ci sia una specie di premura masochista, che non riesco a non dare udienza a tutti i pazzi, disagiati, depressi, ignavi, insicuri, mitomani, Tyler Durden, Theon GreyJoy, Gregor Samsa o simili che incontro. Oris li chiama la corte dei miracoli e, se mi permetto di minimizzare, asserendo che, in questi tempi confusi, non è soltanto il quartiere emotivo della mia vita ad essere mal frequentato, che i condotti empatici di tante persone sono luoghi pieni di mendicanti che si fingono infermi per poi guarire di miracoli improvvisi quando è il momento giusto, mia sorella diventa categorica e mi dice: «Iris, il quartiere emotivo della tua vita è un carruggio abitato da sciagurati e tragici accolli».

Improvvisamente: «Ahhh!» ha urlato l'ammasso congelato di viandanti ed è uscito dal freezer, spalancando lo sportello e iniziando una lenta ma inesorabile marcia verso di me. Era fumante di gelo, con una confezione da quattro Estathè Ice rivoltata sulla testa a mo' di corona e una cartucciera di mini carote che non avrebbe esitato a usare contro di me – essendo io stessa l'autrice di quei proiettili vegetariani tagliati al coltello in maniera maniacale e perfetta, la teoria masochistica di mia madre non è sembrata così priva di fondamento.
Di fronte a quella specie di Re della corte dei miracoli – una Montagna che sarebbe piaciuta tantissimo a Cersei Lannister – ho cercato di rimanere calma e, con le braccia sistemate a conca sui fianchi che fanno sempre molto Basso Lazio, gli ho urlato: «Non mi fai paura, specie di polaretto. Così come ti ho creato, adesso ti distruggo...».
Ebbene sì, l'abbiamo pensata e detta tutti questa cazzata, almeno una volta nella vita: è il delirio di onnipotenza che Mary Shelley incunea nella testa del dottor Frankestein quando gli fa confezionare La Creatura; è il pensiero sopito che se l'Estathè non la smette di occupare il suo spazio sugli scaffali dei supermercati con infidi tentativi di essere qualcos'altro (pera e uva, fate sul serio?) entri in sciopero e fai crollare il mercato nazionale; è l'utopia ridicola che se il metabolismo ti è cambiato una volta può cambiare di nuovo, «Questi chili come sono venuti se ne andranno».
Ho pensato di poterlo combattere da sola quel mostro grottesco, ho pensato che il processo di solidificazione della memoria si può battere, che mi sarebbe bastato riuscire a spingere alla luce del sole quel patchwork di storie insensate e rapporti malsani e lui si sarebbe sciolto, liquefatto al calore della realtà.
Ero pronta a giocarmi le mie mosse migliori ma, quando il Re si è sentito sotto scacco, ha fatto qualcosa che non mi aspettavo: invece di muoversi su un'altra casella, si è accasciato su una sedia. La struttura ossessivamente molle del suo scheletro ha ceduto, le mie frasi sono andate in putrefazione, il suo grugnito aggressivo è diventato un lamento e «Grrr...», ha sussurrato, scuotendo la testa. Poi si è lasciato andare, diventando una pozza di acqua torbida sul pavimento della mia cucina.

Quando Oris è rientrata a casa io avevo appena finito di asciugare tutto quel liquido con il mocio, lo avevo strizzato in un secchio, separato dalle carote, e lo stavo versando dentro un barattolo.
«La corte dei miracoli...», ha detto Oris: «Lo sapevo. La fregano sempre. Le gironzolano intorno, le scrivono in continuazione, la chiamano, le chiedono cose, le fanno perdere un sacco di tempo: poi grugniscono, lei si incazza, ci litiga, getta su di loro le più atroci maledizioni, quelli piagnucolano e lei li raccatta, scolandoli da un mocio in un barattolo. Ma che amarezza! Ma quanto è antigienico tutto questo?».
«Oris, stai parlando con me?», le ho chiesto.
«Privacy, Iris. Lasciami la mia privacy».
Ho preso dal freezer un Estathè Ice che non aveva nemmeno finito di congelarsi e me ne sono andata in camera mia a riflettere sui viandanti: è stato a quel punto che ho pensato che era tutta colpa di mio padre e di quella stanza a fisarmonica.
«Oris, l'Estathè Ice fa schifo», le ho detto quando si è presentata davanti alla mia porta con in mano quel barattolo pieno di acqua torbida. «Questi chili così come sono venuti se ne andranno», ho aggiunto.

Quando mio padre mi ha visto scendere dal treno con in mano un barattolo che grugniva, mi ha chiesto: «Mica lo vorrai buttare?» e io gli ho risposto: «Veramente sì».
«Dammelo, te lo butto io».

martedì 26 aprile 2016

Labirintithè

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Ho capito di essere diventata adulta quando i miei genitori hanno iniziato a guardarmi con profondo dissenso per il fatto che non avessi ancora prodotto un piccolo erede.
«Ma non volete proprio farcelo un nipotino?», dicono a me e a Oris, con gli occhi lucidi e il labbro tremolante. Di solito, Oris gli risponde: «Non guardate da questa parte, io non so badare nemmeno a me stessa. Puntate su Iris se volete avere una seppur minima possibilità di successo», allora loro concentrano gli sguardi delusi verso di me: io deglutisco un sorso di Estathè e cerco di resistere.
All'inizio, sono state solo battutine, piccoli lamenti che comparivano tutte le volte che una mia compagna di scuola rimaneva incinta o che un'amica di Oris si sposava, poi siamo entrati in un territorio impervio, che ha portato avanti il dissenso, nutrendolo di una ricca serie di fasi.
«Le fasi addirittura?», ha chiesto una voce che veniva dall'iPhone di Oris, che era immotivatamente in camera mia, e io ho pensato fosse Siri, quindi l'ho ignorata e sono andata avanti a scrivere.

Dicevo: le fasi del dissenso. Prima c'è stata l'aggressività arricchita di anatema: «Ma magari vi capita, egoiste che non siete altro...»; poi abbiamo deviato verso la disperazione che induce alla libertà sessuale: «Va bene chiunque per farlo, non importa sapere chi è il padre...»; dopo è arrivata la capitalizzazione insensata dei nostri beni: «A chi andranno gli ulivi, i filari d'uva, le nostre case, il sassofono di Oris e questi fucili quando moriremo tutti?» e infine perfino il sostegno di nonna Berta con tesi provenienti da una soap di Rete4: «Ve ne pentirete, come quella di Tempesta d'amore che si è messa con uno vecchio contro il volere di tutti: lui si è fatto sterilizzare come i cani e quando lei l'ha scoperto, da che sembrava che non volesse i figli a che si è ubriacata, è entrata in un bar, è salita su un tavolo e ha iniziato a urlare: 'Qualcuno mi metta incinta! Qualcuno mi metta incinta!'».
Succede in tutte le famiglie, lo so, ed è inutile cercare di argomentare come fa Oris con la sua teoria sull'estinzione della razza umana – «Perché perseverare? Liberiamolo questo pianeta». Non c'è scampo. L'unica cosa che si può tentare è fare finta di niente: cercare di essere sordi da quell'orecchio, rendersi anatomicamente impermeabili alle recriminazioni.
«Sono tutti ossessionati», ha commentato la voce. «Un'infermiera prima mi ha chiesto se era perché avevo appena partorito che ero ricoverata qui...». Solo a quel punto, ho capito che la voce era quella di Wendy, che era in diretta no stop da Saronno, da una settimana, incorniciata in un'inquadratura di Facetime dal suo letto di ospedale.

«Wendy, come stai?», le ho chiesto.
«E come sto? La cartomante di mia madre ha visto che ho smesso di prendere la pillola e ci ha tenuto a dirle che il primo errore sarà fatale; poi non riesco a muovere la testa né a stare in piedi e le infermiere mi scambiano per una puerpera. A parte questo, tutto nella norma: la sceneggiatura di questo film continua a fare schifo».
Wendy è la migliore amica di Oris e, in quanto protagonista di Shining, ha sempre molte aspettative sugli intrecci narrativi e le doti extra-sensoriali delle persone che affollano le nostre giornate e soprattutto, dopo la sua roboante fuga verso Milano, il treno sbagliato che l'ha portata a Genova, il tentativo di furto sventato, un altro treno notturno per Milano, un bicchiere rotto con successivo taglio sotto al piede e il ricovero per labirintite, trova strampalato che qualcuno le parli di maternità, soprattutto che lo faccia la cartomante di sua madre. Allora ho preso in mano il telefono e l'ho guardata.
«Come è potuto succedere tutto questo, secondo te?», le ho domandato – e intendevo le sue corse, lo stress, la coclea, l'apparato vestibolare, il labirinto confuso del suo orecchio – ma ho capito subito di aver posto la questione in maniera troppo generica.
«È tutta colpa dei greci. Minosse ha fatto incazzare Poseidone, Pasifae è finita ad accoppiarsi con il toro, è nato il Minotauro (che poi, voglio dire, fai un figlio e ti viene fuori il Minotauro...). Comunque: Dedalo ha costruito il labirinto, Teseo ha ammazzato il Minotauro, Arianna ha salvato Teseo con il filo, intanto hanno rinchiuso nel labirinto Dedalo e suo figlio Icaro, Dedalo ha costruito le ali ma Icaro è volato troppo vicino al sole (un altro genio di figlio), poi Dedalo è andato in Sicilia, Minosse è morto, io ho superato i trent'anni, non riesco nemmeno a muovere la testa e adesso pare che, in sceneggiatura, c'è scritto che mi toccherà fare un figlio...», ha detto la povera Wendy, in un delirio mitologico da mancanza di Oris, totale assenza di equilibrio e ineleganti conati nei corridoi dell'ospedale.
«Vuoi che chiami Oris?», le ho chiesto.
«No, no, mi piace che stiamo parlando un po', Siri», mi ha risposto lei.

Una volta, da piccola, sono stata in un luna park di Roma che si chiamava LunEur e che aveva un labirinto di cristallo: ovvero un labirinto con divisori trasparenti pensati per ingannarti riguardo all'uscita, visto che, se non stavi attento, finivi per sbatterci la faccia convinto di aver trovato la strada giusta. A terra, questi divisori erano sostenuti da una guida di metallo: io me ne sono accorta, l'ho seguita e ho trovato subito l'uscita.
«Iris, ci hai messo pochissimo! Ti sei divertita?», mi ha chiesto mia madre e io ho risposto: «Non lo so», per non farla dispiacere, anche se non mi ero divertita per niente.
Saranno passati più di vent'anni da quell'episodio ma quando l'altro giorno, al telefono, mia madre mi ha detto: «Ma pure tu pensi che la razza umana si debba estinguere? Oris ti ha messo in testa queste cose e mo tu non mi fai un nipotino? Oppure è tutto quell'Estathè che ti bevi che ti ha fatto diventare così arida? Tu sei materna, Iris: lavi sempre i piatti, ti raccatti tutti quei pazzi, hai viziato tua sorella in un modo inimmaginabile perfino per Pezzetta, parificabile solo a quanto l'ho viziata io. Non puoi veramente pensare di non avere un figlio...», quando dopo tutto quel tempo, io le ho detto: «Non lo so, mamma. Non te lo so dire...», lei mi ha risposto: «Se è un Non lo so come quello del LunEur, siamo a posto».
«Non lo so nemmeno io, Siris», ha deciso di chiosare Wendy.

Il fatto è che stavolta, io non lo so davvero. Non so rispondere. Tra territori impervi, anatemi, filari d'uva, giornate di lavoro infinite, Tempeste d'amore, cartomanti, apparati vestibolari, treni sbagliati, miti greci, uscite con ragazzi cattolici che ti dicono: «Domenica se ti va, ti potrei portare in chiesa», sorelle particolarmente insolenti, mancanza di tempo, di guide di metallo e di vie d'uscita, uno non può avere nessuna sicurezza.
Quindi, quando ho letto il messaggio di Draco Malfoy che mi diceva: «Devo fare ginnastica e ho bisogno di compagnia: o te su Skype – se hai qualcosa da raccontarmi – o una puntata di Scrubs», mi sono precipitata a chiamarlo, anche perché non lo vedevo da un po'.
Mentre faceva i pesi, gli ho raccontato tutto quello che mi era successo negli ultimi giorni e, siccome non poteva parlare, non mi ha contraddetto: incredibile. Poi, mentre faceva le flessioni, gli ho raccontato del vino BIO VEGAN che Denis ci ha portato solo per quello che c'era scritto sull'etichetta: «I nostri vigneti sono gestiti con tecniche innovative di lotta antiparassitaria per confusione sessuale» e lui non ha mosso nessuna invettiva: assurdo. Dopo la doccia, si è presentato davanti alla web-cam con la maglietta della sua squadra di calcio di quando aveva dieci anni e quando gli ho detto che sembrava Mark Owen dei Take That, invece di incazzarsi, mi ha fatto un balletto da leader di una boy band: sublime.
Momenti perfetti, irripetibili, di quelli che ti fanno pensare che forse c'è una possibilità di ritrovare l'equilibrio, le risposte, e scappare dal labirinto. E invece niente: dalla posizione di uscita della sua performance, Draco mi ha guardato intensamente e mi ha detto: «Iris, comunque la tua vita è ridicola. Tu sei fortemente ridicola...».

«Fa proprio schifo diventare adulti», ha urlato Wendy dall'iPhone e, a quel punto, l'hanno dimessa. Per il resto di noi, invece, credo che ci vorrà ancora un po' di tempo.