Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
“Ehi
tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi
una voce fuoricampo”
In
queste settimane, ho bevuto Estathè come se fosse una coazione a
ripetere, quindi Oris ha cominciato a guardarmi con lo sguardo
analitico che avrebbe la sorella di Freud più che la mia. Poi ho
ascoltato sempre lo stesso disco, come se fosse una coazione a
ripetere, e infatti Pezzetta ha cominciato a urlarmi con sprezzo: «Lo
puoi rimettere un'altra volta, per piacere? Vorrei tanto
sentirlo...». Ho anche detto sempre le stesse cose, come se fosse
una coazione a ripetere, per questo si è creato un loop infinito:
Estathè, stesso disco, identiche parole; Estathè, stesso disco,
identiche parole.
In qualche modo, questo ingorgo mi ha fatto pensare a quando ho
imparato ad andare a cavallo: mio padre teneva la cavezza e io, con
le mani strette a pugno intorno alle briglie, giravo in tondo dentro
a un recinto. Non saprei dire quanti cerchi ho segnato dentro quello
stesso percorso: credo di averci roteato dentro all'infinito. Prima
andavo al passo, poi al trotto e infine al galoppo – e poi di nuovo
e di nuovo ancora. Ho iniziato che ero talmente piccola che non
arrivavo alla staffe, quindi mio padre mi faceva infilare i piedi in
mezzo alla cinghie della sella.
Cavalcavo
sempre Arabetta, un incrocio tra un arabo e un Quart Horse – una
razza americana che è la più veloce sul quarto di miglio – e ce
la intendevamo abbastanza io e lei. Volevo un sacco di bene ad
Arabetta, ma devo ammettere che erano altri due i cavalli che
attiravano sempre la mia attenzione: Napoleone e Sparviero.
Napoleone
era arrivato al maneggio da pensionato: era un vecchio lipizzano dal
manto grigio e si sapeva poco della sua vita precedente. Che avesse
qualcosa di friccicarello negli occhi, si era capito subito, ma
nessuno avrebbe mai pensato che un giorno, probabilmente a causa di
un residuo di addestramento, avrebbe cominciato a ballare seguendo la
musica che veniva fuori da uno radio: danzava sul posto, come in un
esercizio di dressage, ogni volta che sentiva una canzone. Siccome
ballava anche su Michele Zarrillo e Marco Masini, io gli davo sempre
la biada di nascosto.
«Non
avete mai pensato di dargli degli psicofarmaci? Tutti i pazzi pensano
di essere Napoleone», ha detto Gus, in lemniscata.
Gus
è un orso polare che mi sta molto simpatico, ma gli anni in cattività
nello Zoo di Central Park, lo hanno reso – come lui stesso afferma
– un «po' picchiatello». Nuotate ossessive, bambini spaventati a
morte, stress, alte recinzioni, psicosi e molti medicinali.
«No,
Gus, non ci abbiamo mai pensato»
«Sai
come mi chiamano questi stronzi che mi danno il Prozac? Mi chiamano:
Gus,
l'orso (bi)polare.
Geniale, no? Pensavo che non fossero per niente ironici, visto che non fanno altro che lamentarsi, ma devo ammettere che mi sono ricreduto...»
«Gus,
la smetti di girare convulsamente?»
«Pensate
tutti che le lemniscate siano degli otto rovesciati. Non capite che
se persevero in questo ciclo è perché le lemniscate sono il simbolo
matematico dell'infinito? È
per questo che non riesco a smettere, non riesco a smettere, non
riesco a smettere...»
«Gus!»
«...non
riesco a smettere!»
A
un certo punto ho cominciato a bere le spremute, per cambiare. Dal
giardino di casa dei miei sono arrivate vagonate di arance, allora ho
cominciato a spremere senza pietà, come se fosse una coazione a
ripetere. Oris e Pezzetta hanno deciso di scuotere la testa per mostrarmi la loro disapprovazione, ma siccome continuavo ad ascoltare sempre lo stesso
disco, sono andati avanti a farlo come se fosse una coazione a ripetere: mi
biasimavano a tempo, sincronizzati in battere, senza riuscire a
smettere.
Gus, eccitato da tutte quelle stereotipie, ha cercato di
smerciare il Tavor, sostenendo che prendere una pasticca tracannando due bicchieri di vino rosso ti regala venti minuti di
gioia assoluta prima di stramazzare al suolo, ma abbiamo deciso che
ci sembrava già sufficiente così: compulsioni, ripetizioni
ossessive di gesti ed errori, metri quadrati di gabbie senza uscita,
dondolii e rimuginazioni, labbra strappate, mobili di Ikea, dissensi.
Sparviero
era un maremmano puro, uno stallone nero enorme, bellissimo e
indomabile. Ci hanno provato in tutti i modi ad addomesticarlo, ma è
rimasto sempre selvaggio, sempre libero, sempre inavvicinabile. A me
faceva un po' paura, soprattutto per il fatto che si accorgeva sempre di
quando davo la biada di nascosto a Napoleone, nitriva fortissimo e mi
faceva sgridare.
A
guardarla da qui, penso che quei due cavalli così diversi, nei
colori, nella specie, nell'attitudine e nelle volontà, fossero una
sorta di metafora delle due diverse facce dell'anima di chiunque in
quel maneggio, dell'anima di chiunque nel mondo.
Sei
più Sparviero o sei più Napoleone?
«Booh!»,
mi ha urlato Gus con un bicchiere di vino rosso in mano,
spaventandomi a morte.
«Gus!
Ti odio quando fai così!»
«Via,
non è vero. Sono adorabile! Cercavo di impedirti di scendere nel
banale, sono quasi certo che stavi per sbagliare un apostrofo...»
«Senti,
non strabuzzare gli occhi in questo modo. Sembri pazzo»
«Sono
le lenti a contatto, Iris. Sono. Solo. Le. Lenti. A. Con. Tatto.»,
mi ha sussurrato Gus, riempiendosi un altro bicchiere.
«Sei
sicuro che non vuoi un po' di Estathè?», ho provato a dirgli, ma lui stava già esultando per un goal che nessuno aveva mai segnato nella
partita Guardiani dello Zoo contro Orsi Bipolari Adorabili.
Mia
madre si è arrabbiata con me («Dici sempre le stesse cose», mi ha
detto. «E poi parli troppo veloce. Quanto thè stai bevendo?»), ma,
nella scala della collera, è stato niente rispetto a quanto si
incazzò con mio padre quando scoprì che stavano cercando di domare
Fuego, il figlio di Sparviero, usando la sua bambina.
Mio
padre e i suoi amici avevano pensato che Fuego avrebbe riconosciuto
il peso di un cucciolo di uomo – di una cucciola, in quel caso –
e non avrebbe fatto gesti inconsulti, quindi hanno immaginato di
poterlo domare mettendogli sopra me. Una bambina, senza sella, su un
maremmano selvaggio: facile immaginare la reazione di mia madre.
Ho
sempre pensato che Furia il cavallo del West si chiamasse così per
ricordare il sentimento incontenibile che l'ha pervasa quando mi ha
visto appesa alla criniera di Fuego.
«Non
dico sempre le stesse cose, mamma. È
solo un periodo molto complicato», ho provato a difendermi mentre
Gus sillabava Ta-vor, Ta-vor.
Quando
arrivi finalmente a poter mettere i piedi nelle staffe, ogni giorno è
un buon giorno per perderle: correre a tutta velocità su un quarto
di miglio, ballare dinoccolati su una canzone di Sanremo oppure
rovesciare un otto e farlo diventare infinito.
«Non
c'è più l'Estathè, non ci sono più le arance, non ci sono più
scuse: devi uscire da questa casa», mi hanno detto Oris, Pezzetta e
Gus, aprendo la porta d'ingresso e lanciando fuori il disco che
continuavo a sentire.
Sono
salita su Arabetta e, con Sparviero a sinistra e Napoleone a destra,
sono uscita.
Gus
è svenuto. Per l'eccitazione, forse, o forse perché erano finiti i
suoi venti minuti di gioia assoluta.