Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

domenica 7 febbraio 2016

Sthèreotipie e anima(li)

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
Ehi tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo”

In queste settimane, ho bevuto Estathè come se fosse una coazione a ripetere, quindi Oris ha cominciato a guardarmi con lo sguardo analitico che avrebbe la sorella di Freud più che la mia. Poi ho ascoltato sempre lo stesso disco, come se fosse una coazione a ripetere, e infatti Pezzetta ha cominciato a urlarmi con sprezzo: «Lo puoi rimettere un'altra volta, per piacere? Vorrei tanto sentirlo...». Ho anche detto sempre le stesse cose, come se fosse una coazione a ripetere, per questo si è creato un loop infinito: Estathè, stesso disco, identiche parole; Estathè, stesso disco, identiche parole.
In qualche modo, questo ingorgo mi ha fatto pensare a quando ho imparato ad andare a cavallo: mio padre teneva la cavezza e io, con le mani strette a pugno intorno alle briglie, giravo in tondo dentro a un recinto. Non saprei dire quanti cerchi ho segnato dentro quello stesso percorso: credo di averci roteato dentro all'infinito. Prima andavo al passo, poi al trotto e infine al galoppo – e poi di nuovo e di nuovo ancora. Ho iniziato che ero talmente piccola che non arrivavo alla staffe, quindi mio padre mi faceva infilare i piedi in mezzo alla cinghie della sella.
Cavalcavo sempre Arabetta, un incrocio tra un arabo e un Quart Horse – una razza americana che è la più veloce sul quarto di miglio – e ce la intendevamo abbastanza io e lei. Volevo un sacco di bene ad Arabetta, ma devo ammettere che erano altri due i cavalli che attiravano sempre la mia attenzione: Napoleone e Sparviero.
Napoleone era arrivato al maneggio da pensionato: era un vecchio lipizzano dal manto grigio e si sapeva poco della sua vita precedente. Che avesse qualcosa di friccicarello negli occhi, si era capito subito, ma nessuno avrebbe mai pensato che un giorno, probabilmente a causa di un residuo di addestramento, avrebbe cominciato a ballare seguendo la musica che veniva fuori da uno radio: danzava sul posto, come in un esercizio di dressage, ogni volta che sentiva una canzone. Siccome ballava anche su Michele Zarrillo e Marco Masini, io gli davo sempre la biada di nascosto.

«Non avete mai pensato di dargli degli psicofarmaci? Tutti i pazzi pensano di essere Napoleone», ha detto Gus, in lemniscata.
Gus è un orso polare che mi sta molto simpatico, ma gli anni in cattività nello Zoo di Central Park, lo hanno reso – come lui stesso afferma – un «po' picchiatello». Nuotate ossessive, bambini spaventati a morte, stress, alte recinzioni, psicosi e molti medicinali.
«No, Gus, non ci abbiamo mai pensato»
«Sai come mi chiamano questi stronzi che mi danno il Prozac? Mi chiamano: Gus, l'orso (bi)polare. Geniale, no? Pensavo che non fossero per niente ironici, visto che non fanno altro che lamentarsi, ma devo ammettere che mi sono ricreduto...»
«Gus, la smetti di girare convulsamente?»
«Pensate tutti che le lemniscate siano degli otto rovesciati. Non capite che se persevero in questo ciclo è perché le lemniscate sono il simbolo matematico dell'infinito? È per questo che non riesco a smettere, non riesco a smettere, non riesco a smettere...»
«Gus!»
«...non riesco a smettere!»

A un certo punto ho cominciato a bere le spremute, per cambiare. Dal giardino di casa dei miei sono arrivate vagonate di arance, allora ho cominciato a spremere senza pietà, come se fosse una coazione a ripetere. Oris e Pezzetta hanno deciso di scuotere la testa per mostrarmi la loro disapprovazione, ma siccome continuavo ad ascoltare sempre lo stesso disco, sono andati avanti a farlo come se fosse una coazione a ripetere: mi biasimavano a tempo, sincronizzati in battere, senza riuscire a smettere. 
Gus, eccitato da tutte quelle stereotipie, ha cercato di smerciare il Tavor, sostenendo che prendere una pasticca tracannando due bicchieri di vino rosso ti regala venti minuti di gioia assoluta prima di stramazzare al suolo, ma abbiamo deciso che ci sembrava già sufficiente così: compulsioni, ripetizioni ossessive di gesti ed errori, metri quadrati di gabbie senza uscita, dondolii e rimuginazioni, labbra strappate, mobili di Ikea, dissensi.

Sparviero era un maremmano puro, uno stallone nero enorme, bellissimo e indomabile. Ci hanno provato in tutti i modi ad addomesticarlo, ma è rimasto sempre selvaggio, sempre libero, sempre inavvicinabile. A me faceva un po' paura, soprattutto per il fatto che si accorgeva sempre di quando davo la biada di nascosto a Napoleone, nitriva fortissimo e mi faceva sgridare.
A guardarla da qui, penso che quei due cavalli così diversi, nei colori, nella specie, nell'attitudine e nelle volontà, fossero una sorta di metafora delle due diverse facce dell'anima di chiunque in quel maneggio, dell'anima di chiunque nel mondo.
Sei più Sparviero o sei più Napoleone?
«Booh!», mi ha urlato Gus con un bicchiere di vino rosso in mano, spaventandomi a morte.
«Gus! Ti odio quando fai così!»
«Via, non è vero. Sono adorabile! Cercavo di impedirti di scendere nel banale, sono quasi certo che stavi per sbagliare un apostrofo...»
«Senti, non strabuzzare gli occhi in questo modo. Sembri pazzo»
«Sono le lenti a contatto, Iris. Sono. Solo. Le. Lenti. A. Con. Tatto.», mi ha sussurrato Gus, riempiendosi un altro bicchiere.
«Sei sicuro che non vuoi un po' di Estathè?», ho provato a dirgli, ma lui stava già esultando per un goal che nessuno aveva mai segnato nella partita Guardiani dello Zoo contro Orsi Bipolari Adorabili.

Mia madre si è arrabbiata con me («Dici sempre le stesse cose», mi ha detto. «E poi parli troppo veloce. Quanto thè stai bevendo?»), ma, nella scala della collera, è stato niente rispetto a quanto si incazzò con mio padre quando scoprì che stavano cercando di domare Fuego, il figlio di Sparviero, usando la sua bambina.
Mio padre e i suoi amici avevano pensato che Fuego avrebbe riconosciuto il peso di un cucciolo di uomo – di una cucciola, in quel caso – e non avrebbe fatto gesti inconsulti, quindi hanno immaginato di poterlo domare mettendogli sopra me. Una bambina, senza sella, su un maremmano selvaggio: facile immaginare la reazione di mia madre.
Ho sempre pensato che Furia il cavallo del West si chiamasse così per ricordare il sentimento incontenibile che l'ha pervasa quando mi ha visto appesa alla criniera di Fuego.
«Non dico sempre le stesse cose, mamma. È solo un periodo molto complicato», ho provato a difendermi mentre Gus sillabava Ta-vor, Ta-vor.

Quando arrivi finalmente a poter mettere i piedi nelle staffe, ogni giorno è un buon giorno per perderle: correre a tutta velocità su un quarto di miglio, ballare dinoccolati su una canzone di Sanremo oppure rovesciare un otto e farlo diventare infinito.
«Non c'è più l'Estathè, non ci sono più le arance, non ci sono più scuse: devi uscire da questa casa», mi hanno detto Oris, Pezzetta e Gus, aprendo la porta d'ingresso e lanciando fuori il disco che continuavo a sentire.
Sono salita su Arabetta e, con Sparviero a sinistra e Napoleone a destra, sono uscita.

Gus è svenuto. Per l'eccitazione, forse, o forse perché erano finiti i suoi venti minuti di gioia assoluta.