Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

venerdì 3 febbraio 2017

Thè rehab

Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Sto aspettando il treno per tornare a Roma: ho una valigia, uno zaino con il computer, una borsa con due pentole in vetro borosilicato temperato (volgarmente detto pyrex) e nemmeno una goccia di Estathè in corpo. Nelle ultime due settimane, sono stata davanti a un camino a leggere, a guardare serie TV e a riflettere sul perché in trentadue anni di vita non mi sono mai preoccupata di ascoltare il mio corpo.
Eppure, non ho fatto altro che ascoltare tutti gli stronzi che ho incontrato, la gente più assurda ha avuto voce in capitolo sui miei affari: solo il mio corpo non ha potuto dire una parola, non è mai stato interpellato e, anche quando ha cercato di imporsi portando la sua condizione al limite, più che essere ascoltato è stato gestito, sistemato al fine di farlo tornare zitto e al suo posto.
«Infatti, non sai quanto mi stai sul cazzo», mi ha detto dopo qualche giorno davanti al camino, mentre, abbracciati a Netflix, recuperavamo la prima serie di The OA; il mio corpo si è accartocciato sul divano quando Prairie insegnava i cinque movimenti e mi ha detto: «Quanto mi stai sul cazzo, Iris. Non sai quanto».

Non mi ero mai accorta che il mio corpo fosse così arrabbiato con me: lo nutro, lo assecondo, cammino tantissimo, ho comprato una bicicletta ellittica e la uso davvero, mangio decentemente e gli dono tutto l'Estathè di cui ha bisogno. Cosa dovrei fare di più? Dovrei usare la quinoa e il topinambur? Dovrei preoccuparmi dei rush cutanei, dei cibi che non digerisco, dell'insonnia, del perenne stato di ansia in cui mi trovo, dei dolori, dell'iperattività e delle posizioni in cui mi costringo a stare quando scrivo?
«Perché ti devi mettere così tanto in mezzo? Che cosa vuoi da me?», ho ripetuto al mio corpo negli ultimi mesi, dopo essermi accorta che aveva deciso di esacerbare la lotta, preparando le munizioni e caricando i fucili. Siccome le mie domande erano – e sono sempre state – retoriche, non mi sono interessata a nessuna risposta, ho lasciato sedimentare il litigio in un soliloquio e, solo quando la situazione è diventata ingestibile, ho fatto come faccio sempre, cioè: ho preparato i bagagli e sono andata a sistemarmi davanti al camino dei miei genitori, in rehab, a leggere, a guardare serie TV e a riflettere.

Oltre al resto, da quel punto dell'universo, ho anche facile accesso a Penelope, una dottoressa che mi ha visto crescere – in quanto madre di una delle più care amiche della mia infanzia – e che, oltre ad essere un bravissimo medico, ha anche un animo artistico molto interessante che rende i nostri incontri bizzarri e bellissimi (tra ritratti, tessuti, puzzle, uncinetti e problemi sui parallelogrammi).
Quando sono andata a trovarla per spiegarle della mia lotta intestina, Penelope stava creando un centrotavola e, con le mie analisi in una mano e dell'alloro nell'altra, mi ha detto una cosa che mi ha lasciato attonita. È da tempo che mi interrogo sulla pre-biografia, che, a differenza di fiction, non fiction, autoficton e autobiografia, è una forma narrativa che le pagine che scrivi assumono tuo malgrado: accade che, per uno strano meccanismo, quello che racconti inizia ad avere un'influenza su quello che ti succede. Il sospetto mi era già venuto in diverse occasioni: per esempio, quando mi si sono rotte le perle nello stesso identico modo in cui l'avevo scritto qualche anno prima, oppure quando dopo aver parlato ossessivamente di valvole di ritegno nel mio primo romanzo, la valvola che connette il mio esofago con lo stomaco ha smesso di funzionare bene; ma quando Penelope, sistemando delle candele rosse, ha sentenziato: «Iris, il tuo corpo sta cercando di dirti qualcosa e io credo che questa cosa abbia a che fare con il Nichel», ho capito che non era un sospetto: la pre-biografia esiste e, per quanto mi riguarda, funziona grazie al fatto che, a differenza mia, il mio corpo mi ascolta moltissimo: poi prende quelle informazioni e le usa contro di me.

D'altra parte, in questo caso, era davvero facile: la mia mania per la tavola periodica, le mie recensioni musicali chimico-letterarie, il fatto che la protagonista del romanzo che sto scrivendo si chiama Nicla ma sua nonna la chiama Nìchela come se fosse fatta di Nichel... Non ci voleva un genio per farmi sentire colpevole nei confronti di me stessa. Perché il punto è che la mia pre-biografia non ha a che fare con la preveggenza, con dei tentativi inconsci di dominare il futuro o con qualcosa di magico, no: ha a che fare con quel termometro che misura la mia vita e che si è bloccato su delle temperature che oscillano solo tra il grottesco e la presa per il culo – ecco, una cosa tipo la prestigilibiridirizzazione di Raul Cremona quando imitava Silvan.
E così, mentre pensavo: «Nichel – simbolo dell'elemento: Ni; numero atomico: 28; serie: metalli di transizione», Penelope mi ha spiegato quanti cibi non posso mangiare, dove devo cucinare, in che modo devono essere conservate le cose che compro; ha stilato una lista, ma io riuscivo a pensare solo: «Estathè, Estathè, Estathè» perché lo so che, in questi casi, il mio amico chimicone è sempre il primo a saltare. Siccome, oltre a questo, Penelope mi faceva domande del tipo: «Da dove lo prendi di solito il Calcio?» – alle quali, chiaramente non potevo rispondere: «Estathè» –, mi sono intristita parecchio, talmente tanto da pensare di non sapere niente di niente e di non essermi mai veramente impegnata a capire di che materia sono fatta e in che quantità, e di cosa ho oppure non ho bisogno.
Magari, aveva ragione quel tipo che, durante una cena, aveva segnato con le braccia il contorno di tutto il nostro tavolo e mi aveva detto: «Vedi, Iris: questa è la tua testa» e, poi, lasciando mezzo centimetro tra l'indice e il pollice, aveva aggiunto: «Questo, invece, è il tuo corpo. Capisci qual è il tuo problema, secondo me?».

Il primo giorno di rehab è stato durissimo.
«Hai assorbito troppo stress, troppe cose che scrivo, troppa gente, troppo Nichel», ho detto al mio corpo quando siamo tornati davanti al camino di casa dei miei genitori: «Ora ci dobbiamo disintossicare».
«Vaffanculo, brutta testa di cazzo», mi ha risposto lui ed è stata la prima cosa che mi ha detto in assoluto, non appena ha avuto la possibilità di essere ascoltato.
«Iniziamo benissimo...».
«Sai che ti dico? Ha ragione Draco Malfoy! Tu sei gentile con tutti, pure con i truffatori dei call-center, pure con quelli che ti dicono che hai la testa grossa come il tavolo di un ristorante. Ascolti tutti: nel corso degli anni, hai permesso a cani e porci di essere la tua voce fuoricampo. Hai fatto la stronza solo con me...».
«Innanzitutto: Draco Malfoy non ha mai ragione, nemmeno quando ha ragione. E poi: ho capito che ti devo ascoltare, ma siamo sicuri che sono queste le cose che mi devi dire?».
Dopo 20 ore senza Estathè, mia madre ha iniziato a preoccuparsi: ero buttata sul divano, scontrosa, con le ossa a pezzi e il mal di testa. Me la sono vista comparire davanti con un brick, tipo oasi nel deserto: «Bevi, tossica. Stai così perché sei in astinenza».
Ci ho messo un po' ad abituarmi – ma se qualcuno mi deve chiamare, consiglio di farlo dopo le cinque: alle cinque, bevo il mio primo e unico Estathè della giornata, quindi da quel momento in poi sono felice e mansueta.

Ora sto tornando a Roma. Dopo due settimane di camino, divano, libri, serie TV, riflessioni e chiacchierate con le amiche di mia madre (un gruppo di sostegno di cui mi nutro in rehab e che, saputa la storia del Nichel, mi ha subito fornito le pentole in pyrex che devo usare per cucinare), sto aspettando il treno per tornare alla normalità. Mi sembra uno di quei momenti che sono metafora, sineddoche, parallelogramma, centrotavola di una vita intera, se non fosse che...
«Porca troia che palle: io sto carico di roba e tu fino a che non arrivano le cinque non sei per niente felice né mansueta».
«Senti, corpo: non c'è bisogno di parlare in continuazione...».
«Ma noi siamo sicuri che 'sta rehab è finita? Finita finita?».
«No che non è finita. Qua nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma, si deforma, ci intossica e rompe le scatole...».
«Le scatole? Ha ragione Giaris quando ti dice che non ti sfogherai mai se continui con 'sto politically correct. Ti faccio un esempio: lo vedi questo treno? Ecco, Iris, questo treno è la tua testa. Invece lo vedi questo dito medio, ecco questo dito medio è per andartene affanculo».

Nichel, ma tu sei sicuro che vuoi stare qua dentro?
Esci, Nichel, ti prego: esci da questo corpo.