Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

giovedì 31 maggio 2018

Inthèrlocutori


Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Non conosco una persona che non si lamenti dello scollamento che esiste tra quello che sente di essere e quello che gli altri pensano che sia oppure tra quello che pensa che siano gli altri e quello che gli altri fingono di essere. Fa parte della natura umana sia non comprendersi pensando di aver capito tutto sia non lasciarsi comprendere pensando di essere stati fraintesi e, in questo, siamo tutti talmente umani che non facciamo altro che non capirci, finendo per starci tutti sul cazzo.
Io, ovviamente, mi sono conferita il titolo di campionessa olimpica di questo scollamento fin dalla culla e non ho fatto altro che crogiolarmi in questa condizione. Dentro la mia testa, ci provo sempre ad elevarmi, a tentare di superare quest'impasse facendo uso di controragionamenti, autopsicologia inversa e neutralità di giudizio, ma nei fatti ogni volta che qualcuno non mi saluta penso di stargli antipatica, anche se so che, ogni volta che io non saluto qualcuno, quel qualcuno di solito mi sta simpatico, ho solo paura che non si ricordi chi sono.
Credo sia colpa delle insicurezze, della timidezza, della goffaggine: queste cose ti scavano un fossato intorno, che rende più difficile ogni rapporto con gli altri, quindi gli altri – che intanto devono gestire pure il loro di fossato – invece di girarti intorno fino a trovare il ponte levatoio o immergersi nei chilolitri di Estathè che riempiono i fossi, lasciano stare, tanto sono alte le possibilità che tu sia solo l'ennesima stronza antipatica che tiene lontani tutti quanti.

«Ma ti leggi mentre scrivi? Ma che è 'sta mania di intellettualizzare tutto?», mi ha detto la voce di Giaris, che è entrata in casa dalla finestra, a proiettile, insieme a un tappo di bottiglia arrivato probabilmente da qualche tovaglia scrollata o da qualche proposito omicida nei confronti della mia resistenza cardiaca.
«Iris, tu lo sai che io ti adoro quando metti me e Oris come bambole di pezza sul tuo letto e ci racconti i paradossi dei viaggi nel tempo e sai pure che io sono grande fan e attuatrice dell'odio per la gente, però tu la devi fare finita con questa storia degli scollamenti, del ponte levatoio e dei – come hai detto? – chilolitri. Chilolitri, Iris, davvero?».
«I chilolitri sono un'unità di misura, caro tappo di sughero con la voce di Giaris che, dall'odore, mi sa che chiudevi una bottiglia di vino rosso...».
«Senti, Chilolitri, non ti deconcentrare. Seguimi. Visto che con la storia dell'anti-galateo abbiamo fallito miseramente, proviamo con questo: da oggi, ti devi inventare un tiradentro. Ti serve, come serve a tutti...».
«Un tiradentro?».
«Sì. Hai presente quelli che stanno fuori dai locali e che ti dicono "Daje, su, entra, che qua se fa la migliore amatriciana de Roma"? Ecco quelli. Perdonami, ma se la gente di te vede solo quest'insegna che hai messo fuori, cosa deve pensare? Non si capisce se sei un ristorante, se sei una cartoleria, se sei un centro di recupero per ragazzi speciali o un appartamento privato chiuso al pubblico perché se sente tanto 'sto cazzo».
«Ho capito, ma quindi che devo fare?».
«Devi interloquire, Iris. Devi imparare a parlare con le persone».
«Ma io ci parlo con le persone!».
«Ma con chi parli? Sempre con quei quattro stronzi della cazzo di corte dei miracoli degli amici tuoi!».

Chiaramente, non esiste un manuale per la creazione del tuo tiradentro, non esistono tavole di montaggio, pezzi di costruzione o maieutici cavatappi per l'inconscio, quindi la richiesta della Giaris turacciolo mi ha messa molto in difficoltà.
Le mie conversazioni, fuori dalla comfort zone delle persone che conosco sul serio, mi sembrano sempre faticose. Cosa dovrei rispondere all'insegnante di yoga che, mentre sono nella posizione del cammello, mi dice: «Devi aprire di più il cuore, Iris»? O al commesso del Carrefour che mi dice: «Mannaggia la miseria con 'sto Estathè, guarda che il Sant'Anna è identico, eh»? Sto zitta, che è meglio, visto che con sconosciuti e conoscenti riesco a dare il peggio di me nell'ansia di nascondere il mio fossato e saltare a pie' pari il loro.
Quando un mio amico mi ha chiesto se mi poteva lasciare sua figlia per qualche ora, io ho subito pensato: «E mo che le dico?», quindi: «Certo», gli ho risposto, «però io non le posso dare retta che devo lavorare».
«Perfetto, grazie e non ti preoccupare, tanto Oris è autonoma». Già, perché poi la figlia del mio amico si chiama Oris, ha undici anni, è bionda, bella e molto intelligente, di quella intelligenza furba che unduetré sei seduta per terra con lei che ti fa le trecce. E sì, se ci state pensando, la risposta è sì: ricorda proprio qualcuno di mia (e ormai pure di vostra) conoscenza e infatti la prima domanda che mi ha posto è stata: «Posso vedere l'armadio di Oris che lei ha un sacco di vestiti?». Oris, l'altra Oris, la somma Oris, quella che le trecce te le fa solo con lo sguardo.
Per il resto siamo state in silenzio, io ho lavorato e lei ha guardato la TV, fino a che non è tornata dal lavoro Big Oris che, appena è entrata, le ha regalato un vestito, le ha fatto una treccia e si è fatta raccontare tutti i suoi segreti – chiaramente, ogni bambina bionda è fornita di un tiradentro che manco i bancarellari di via Sannio.
A un certo punto, mentre non so come ci siamo ritrovate al tavolo a giocare a poker, Oris piccola mi ha guardato e ha colpito forte: «Papà dice che tu scrivi. Che cosa scrivi? A me piacciono i gialli. Cioè, mi piacciono dal momento in cui muore qualcuno, prima di quello mi annoiano».
Per rispondere, ho bofonchiato cose che lei ha finto di capire e poi sono stata salvata da un full di Oris grande che, ovviamente, non ha fatto vincere una mano a nessuno.

«Non capisco quale parte di "Devi imparare a parlare con le persone" non era chiara, Iris», ha tuonato la voce di Giaris mentre mi scioglievo la treccia.
«Ma una sfida più facile di due Oris sedute intorno a un tavolo non mi poteva capitare?».
«Vogliamo invece parlare di come ti sei fatta sgridare dal personal trainer nella sala isotonica – per dirla come la diresti tu?».
«No, non parliamone».
«Ti vergogni, eh».
Non è che mi vergogno è che io dovevo fare un esercizio che lui mi aveva scritto sulla scheda, ma intorno al macchinario c'erano due tipi che facevano cose ansimando come ansimano gli uomini quando fanno sport – che sembra che i muscoli li devono partorire, non allenare.
«Iris, ma che stai a fa' ferma là davanti?», mi ha detto lui.
«Riccardo, non è che posso sostituire questo esercizio con un altro?».
«Ma perché?».
«Non voglio mettermi là in mezzo e imporre la mia presenza, non li voglio disturbare».
Non saprei descrivere lo sguardo che mi ha riservato Riccardo, posso solo riportare le sue parole: «Tu forse stai scherzando, Iris. Adesso gonfi il petto, vai là e gli dici "Levateve". In sala pesi, vige la legge del più prepotente, la devi imporre la tua presenza sennò questi te se magnano. Forza, vai là, io ti guardo: spalle dritte e arroganza».
«E invece tu che hai fatto? Diciamolo quello che hai fatto», mi ha incalzato Giaris: «Sei andata lì e hai sussurrato "Scusate, devo usare questo macchinario", che capirai se ti potevano sentire quei due compressori a pistone di nessuna utilità per il prossimo. Poi ti sei seduta vittoriosa sul macchinario e Riccardo, porello, ti ha sorriso come se avessi davvero interagito e vinto la tua battaglia...».

Io non ho capito se ho un problema con i giudizi degli altri, con i pregiudizi, i cambi di idee, gli indulti, le riduzioni di pena o le preterintenzioni, so solo che quando devo avere a che fare con qualcuno che non conosco mi sento sotto osservazione, come se fossi in tribunale, e mi immagino che tra me e l'altra persona ci sia Borza, una tipa molto minacciosa che controlla le borse fuori da un locale in cui vado spesso a vedere i concerti. È sempre incazzata e ti controlla dappertutto: se mi trovasse in possesso di un brick di Estathè non me lo sequestrerebbe, me lo farebbe ingoiare intero.
«Aprite le borze. I maschi de là, le femmine de qua. Ma che stai a fa? Anvedi questo. Qua noi stiamo a lavora', mica ce stamo a diverti'... A te non te farei proprio entra', guardampo'».
L'ultima volta che ci sono andata, sull'onda delle mie disquisizioni con Giaris, mi sono immolata al controllo con il cuore aperto e un gran sorriso sulla faccia. «Ciao tesoro, c'hai acqua, smalti, deodoranti?», mi ha chiesto lei mentre mi sprimacciava la borsa da sotto. «No, niente», ho risposto io, con un piede già sopra al ponte levatoio. Poi, però, lei ha infilato le mani tra le mie cose, si è messa a ridere e scuotendo la testa ha alzato un po' la voce e ha commentato: «Capirai, questa c'ha 'n libro. Vai vai, passa...».
Mentre cadevo nel fossato, mi sarei voluta giustificare, dirle che aveva frainteso, che non era come sembrava, che quello che era successo era che non avevo potuto svuotare la borsa prima di andare al concerto, che mica ero una scema dissociata che si porta un libro quando va a sentire la musica dal vivo, ma lo scollamento ormai era avvenuto, il terreno comune era perso e io sono stata costretta a nuotare nell'incomprensione.
È stato in quel momento che, da un bicchiere di un superalcolico, Giaris mi ha detto: «Idea pazzissima: e se ingaggiamo Borza come tua personale tiradentro? Sai quanto ci divertiamo?».
«Ma infatti, la prossima volta che mi perquisisce, provo a dirglielo. Potrei farle il discorso sulle insicurezze, la timidezza, la goffaggine... magari funziona, no?».
«Certo, oppure le puoi dire quella cosa del paradosso del nonno nei viaggi nel tempo, così pensa che le stai insultando il suo di nonno e ti mena. Allora sì che ci divertiamo».
«Ecco, almeno divertiamoci, va'», le ho risposto, prima di spegnere l'insegna e mescolarmi agli altri, in quella complessa rete di natura umana piena di interlocutori impossibili.
Poi, siccome uno che conoscevo non mi ha salutato, con grande pacificazione nei confronti di me stessa, mi sono girata verso Oris e le ho detto: «Mi sa che a quello gli sto antipatica».
«Ma che ti frega! Sapessi a quanti sto antipatica, io».

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