Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
“Ehi
tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi
una voce fuoricampo”
Il
dolore per me ha una rappresentazione precisa: è il piede di porco
che il 2 gennaio 2008 ha cominciato a spingere sul secondo premolare
della mia arcata dentale destra inferiore. Dall'interno della
gengiva, durante i miei ventiquattro anni di vita, un piccolo e
fetente doppione aveva percorso la strada che lo divideva dal suo
gemello e, quello specifico giorno, dopo i bagordi del Capodanno, si
era messo a spingere sul nervo, deciso a sfondare Abele, manco fosse
un Ca(n)ino qualunque.
Il
dolore per me sono le tre di notte con Oris che cerca di non farmi
sbattere la testa al muro, che mi butta in bocca grappa, camomilla
bollente, Estathè ghiacciato, colluttorio, farina, sale iodato,
gocce per gli occhi: qualsiasi cosa. Essendo, in pratica, allergica
alla totalità degli antidolorifici, sono costretta ad arrangiarmi
quando sto male.
È
chiaro che il mio è un implacabile destino di sofferenza.
Ogni
volta che faccio un controllo dal dentista, ripenso alla faccia del
medico dopo la lastra, a questi denti uno sopra l'altro, a lui che
mi dice: «Dobbiamo intervenire» e poi all'operazione. Ho tolto un
pacifico e innocuo dentino per far posto a un cazzo di facinoroso,
portando, per quattro mesi, un apparecchio con un tirante di ferro
che pescava il dente di sotto direttamente da dentro la gengiva e lo
portava su piano piano, in modo che facesse la strada giusta e che
prendesse il posto dell'altro con cognizione di causa.
La
soglia del mio dolore si è alzata in quei tempi duri di cibi
morbidi, durante i quali io e il mio frullatore, che non amiamo né
lo yogurt né il gelato, abbiamo prodotto omogeneizzati di ogni tipo,
arrivando a tritare perfino pane e salame.
Il
dolore per me era fisico e psicologico, come tutti i dolori peggiori.
Ma,
oltre a questo, io parlavo come Sloth de I Goonies.
Siccome
sono una donna, sono riuscita a sopportare tutta quell'indecenza con
un pizzico di dignità. Non ne voglio fare una questione di genere,
ma è noto che gli uomini hanno una soglia del dolore ridicola,
infima, quasi inesistente.
Quando
Pezzetta ha il raffreddore, io e Oris chiamiamo la divisione Grandi
Eventi della Protezione Civile per dargli supporto.
«Sendo
di avere la febbre»
«Pezzetta,
il termometro dice che hai una temperatura di 36.7»
«Il
terbobetro deve essere roddo», ci dice con gli
occhi a fessura, mentre ciabatta ad accucciarsi verso un termosifone
spento a ferragosto.
Io,
invece, in quei terribili giorni in cui: «Almeno puoi bere
l'Estathè» era il mantra di rassicurazione, me la sono cavata: il
dolore era così potente da rendermi remissiva e la fame così forte
da rendermi aggressiva, quindi alla fine mi sono normalizzata e, a
quei mesi, gli ho perfino scucito un fidanzato.
«Come
hai detto che ti chiami?»
«Irif
Vevficolov, ma non avvò pev fempve
quefta effe fevpentina»
«Sai
che parli come Sloth de I Goonies?»
«Lo
fo. E Orif e Peffetta poffono infilavti
le dita nel mio fvullatore fe glielo chiedo, cavo
Chunk...»
«Ah,
The Fratellis!»
Più
in là nel tempo, quando la storia sarebbe naufragata malissimo
(nessuna storia che inizia con un dente che ne spazza via un altro
può andare molto lontano), in un delirio da 37.2 di febbre, Pezzetta
avrebbe commentato: «Cobudque, dod è vera la
sdoria che De Fradellis haddo preso il
dobe da I Goodies»
Il
motivo per cui scrivo tutto questo è che, in questi giorni, Sloth è
tornato nelle nostre vite, sotto altre spoglie: Oris lo indossa prima
di andare a letto la sera e ci si sveglia la mattina.
«Digrigni
i denti, è un problema», le ha detto il medico: «Devi metterti un
bite».
«Ho
i denti grassi, tozzi, più larghi che lunghi», gli ha risposto lei:
«Questo è il vero problema». Ma ha vinto il medico e allora lei ha
cominciato a soffrire.
Il
dolore per Oris ha una rappresentazione precisa: è il gilet
trapuntato verde che ha indossato per andare a Napoli durante una
gita in seconda media. Aveva gli occhiali rotondi, un cappello con la
visiera ed era un po' cicciottella (lei direbbe: «Grassa, tozza, più
larga che lunga»). Dall'interno del nostro armadio, durante i nostri
primi quindici anni di vita, nostra madre aveva sempre tirato fuori
delle scempiaggini (erano gli anni ottanta e poi i novanta, forse non
era tutta colpa sua), ma quella volta aveva davvero toccato il fondo:
Oris non è mai più stata la stessa persona.
È
stato un dolore estetico, cromatico, quasi morale, come i
dolori peggiori.
Ma,
almeno, ai tempi, non parlava come il fratello deforme de The
Fratellis.
«Non
riefco a immaginave una puniffione
peggiove di quefta», ha detto la prima volta che ha
indossato il bite: «Mi viene da vomitave».
«Doglidi
quesdo bide che dod si capisce diende»,
ha risposto Pezzetta, starnutendo.
Non
devo ancora sottolinearlo che il mio è un implacabile destino di
sofferenza, vero?
Nessun commento:
Posta un commento