Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!»,
gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce
fuoricampo»
Nel
corso degli ultimi anni, il mio vocabolario sentimentale si è
ampliato e così, molto spesso, nella mia cucina (che, come è noto,
è anche la stanza dove accolgo e cerco di sviscerare molteplici e
diversificate questioni amorose di amici e conoscenti), apro uno dei
miei quadernoni e, mentre Giaris, Lorelai, Draco Malfoy o Oris mi
raccontano cosa gli è successo, io scorro la lista dei nuovi termini
imparati, bevo un sorso di Estathè ed elargisco la mia sentenza.
«È
un chiaro caso di ghosting». «Ti devi arrendere al fatto che
si tratta di benching». «Stiamo per entrare nella cuffing
season. Non sei innamorata, è solo situationship». «Sei
chiaramente affetta da birdboxing». «Te lo dico: stai
facendo breadcrumbing».
Lo
so: sembrano supercazzole, soprattutto in bocca a me, che se sento
qualcuno che dice «scannerrizzare» invece di «scansionare»
svengo, ma non ci posso fare niente se tutta la nuova guida amorosa
alla digitalizzazione dei sentimenti è foreing e io sono
diventata la Cambridge Analytica delle relationships.
L'inglese, dopo essersi preso la terminologia della politica,
dell'informatica, del business, del fashion, del web, dei social
network e di molte altre cose, si è preso pure il lessico dell'amore
2.0. Ormai, la sensazione è quella di essere costantemente bloccati
nel livello «Stronzi in love» di Duolingo e di non avere abbastanza
risorse per superarlo, quindi per sopravvivere in questa giungla
qualcosa si deve pur fare e quella cosa è aprire un quadernone,
prendere appunti e imparare.
Per
esempio, se esci con una persona e poi quella sparisce si dice
ghosting; se dopo essere sparita ti guarda le stories di
Instagram e ti fa qualche sparuto like su Facebook vuol dire che ti
sta facendo orbiting (ma se dal ghosting all'orbiting
passa molto tempo, allora ci troviamo di fronte allo zombeing).
Se invece la persona c'è, rimane, ma non si impegna, ti manipola
dicendoti che prima o poi ti farà giocare ma continua a lasciarti in
panchina, devi barrare la casella del benching. Se l'altro (o
l'altra) si applica il minimo indispensabile per mantenere vivo il
tuo interesse e nutrirsene, dandoti attenzioni come briciole di pane,
allora sei Gretel (o Hansel) e quello che sta succedendo si chiama
breadcrumbing. Se invece entri in una relazione solo per
circostanza, stai facendo situationship; se la relazione
rimane isolata e segreta allora è stashing; se continui a non
vedere quanto l'altra persona sia orrenda allora è birdboxing...
E così via.
Folle?
Abbastanza, sì. Però il fatto è che il dizionario delle nuove
forme di crudeltà emotiva (le chiamano così gli psicologi, non io)
andava aggiornato e pure noi. E così io faccio questi corsi di
aggiornamento individuali che, da quando è arrivato Ottobre e
l'autunno ha iniziato a farsi spazio nelle nostre giornate, sono
diventati molto richiesti: la mia cucina è affollata, l'Estathè è
sempre di meno e non fanno altro che affastellarsi dati amorosi da
scandagliare e capire. Il motivo chiaramente è che stiamo entrando
nella cuffing season, che è un periodo di tempo che va da ora
a Febbraio, in cui anche se sei normalmente e felicemente single, ti
scoppia questa voglia irrefrenabile di entrare in una relazione
perché fa freddo, gli strati di vestiti fanno la guerra alla
libido, sono ricominciate tutte le serie tv, fuori piove, il divano è
invitante e quindi si finisce per ammanettarsi (cuff, in
inglese, vuol dire manette) alla prima persona di merda che si
incontra e quindi poi si ha bisogno di venire nella mia cucina a
guardarmi bere Estathè ed elargire sentenze.
Devo
dire che con le relazioni degli altri sono molto brava: è facile
parlare con l'amore quando quell'amore non è il tuo. L'amore degli
altri si fa vedere, mentre i tuoi sentimenti con te, al massimo,
mugugnano, borbottano, frignano, parlando una lingua che non capisci.
Con
me, l'amore, quando dobbiamo avere a che fare, squittisce.
«Squit
squit», mi dice e allora io cerco di personificarlo, per poterci
interagire. Mi immagino che sia Jack Pearson di This is us oppure
Abe Weissman di The Marvelous Mrs. Maisel – ho già detto
che stanno ricominciando le serie tv, vero? – ma lui niente, resta
un topo e mi fa «Squit squit» in faccia, come se il fatto che non
ci capiamo fosse tutta colpa mia. Ma io lo so che non è colpa mia, è
colpa di come l'amore si è allegorizzato nella mia vita,
attaccandosi a una scena di tanto tempo fa che coinvolge mia madre e
la sua fobia per i topi.
Avevo
sei anni e stavo da mia nonna, mentre mia madre era andata a trovare
queste sue amiche vicine di casa. Avevo pianto talmente tanto per
raggiungerla che, alla fine, nonna Berta, estenuata, mi ci aveva
portato. Mia madre era uscita sul pianerottolo per aspettarmi perché
le vicine abitavano al terzo piano di un palazzo e, quando ero sulla
rampa per arrivare al secondo piano, si era accorta che tra me e lei
c'era un grosso ratto, accovacciato al centro di uno scalino. Non
sapendo che fare, mia madre ha iniziato a urlarmi di stare ferma e di
scappare, di non muovermi e di correre e altre cose sconclusionate e
contraddittorie con una voce talmente acuta che ha finito per
disorientare anche il ratto che, senza più capire dove fosse, è
caduto nella tromba delle scale, sfiorandomi la faccia.
Quindi
io quando penso a cosa mi ha sempre fatto l'amore nella vita
questo vedo: un topo che squittisce, si confonde e poi cade nella
tromba delle scale, sfiorandomi la faccia. Io ci provo a parlarci, mi
impegno sempre, ma quello dice solo «Squit squit» come se
significasse tutto. Ho pure cercato su Duolingo – dove insegnano
perfino alto valyriano e klingon – ma niente, questa lingua topesca
non si può imparare.
E
così io finisco sballottata tra gaslighting e submarining,
tra textrelationship a microcheating, tra ghosting e orbiting senza colpo ferire.
«E
quindi che si fa?», mi chiedono amici e conoscenti quando elargisco
la mia sentenza e do un nome a quello che qualcuno gli sta facendo.
«Squit
squit», risponde il topo al posto mio e poi si butta nella tromba
delle scale.
Le
manipolazioni, i giochi psicologici, le sparizioni, le tattiche,
l'attesa di rassicurazioni, le bugie, gli status incrociati, i like
alle foto profilo, gli screenshot dei messaggi, i vocali, le reazioni
alle stories. «Secondo te cosa intendeva quando ha scritto "Embé"
e ci ha messo l'accento acuto invece di quello grave come si dovrebbe
fare con il "perché"
che invece sbaglia sempre?». «Perché nella lista delle
visualizzazioni delle mie stories sta al secondo posto dopo mia
madre? Vuol dire che va a guardare spesso il mio profilo?». «Io gli
ho scritto alle 21.35, lui mi ha risposto alle 02.03: quando ti
scrivono di notte che significa?». «Ha postato un libro che gli ho
consigliato io, non aggiungo altro».
Stiamo
messi così? Sì, stiamo messi così. E non lo so cosa vuol dire, non
so come si deve fare, non so come ci possiamo salvare. Ormai, tra
cushioning e tuning, tra draking e R-bombing,
siamo in un campo tale di irrazionalità che mi viene solo da pensare
a mia madre quella volta che un topolino di campagna è entrato in
casa nostra e lei, urlando, è scappata in veranda ed è salita con
un balzo su un angolo di una panchina di plastica, ribaltando la
panchina e se stessa nel tentativo di salvarsi.
«Squit
squit», mi ha detto il topo, guardandoci con compassione.
«Embè?»,
gli ho risposto io, «Ma si può sapere che diavolo vuoi?».
Stabilire
i termini di una relazione è sempre un affare difficile, per mille
motivi diversi – resistenza alle definizioni, insicurezza sui
sentimenti, difficoltà a fidarsi, strani condizionamenti sociali. E
poi c'è questo fatto che «stabilire i termini di una relazione»
contiene, oltre alla temutissima parola «relazione», anche la più
che ambigua parola «termini». Termini, plurale di termine, vuol
dire sia definizione di spazio e di senso che limite, confine, punto
estremo di qualcosa, fine corsa, conclusione, compimento; ma non
solo, vuole anche dire vocabolo, elemento di realtà, locuzione che
descrive un oggetto – per non dire che, se abiti a Roma, termini ti
fa pensare pure alla stazione ed è subito caos, confusione, garbugli
per arrivare dall'uscita della metro A al binario della metro B1.
«E
quindi che si fa?», insistono i miei amici e conoscenti, in cucina, mentre io
giro le pagine del quadernone per prendere tempo, fingendo che, da
qualche parte, mi sono scritta pure una soluzione. Ma la verità è
che io non lo so: so le domande, so le parole giuste, metto gli
accenti per bene e non sbaglio mai l'apostrofo, però le risposte non
le so.
La
mia amica Linari dice che ci si deve disintossicare, mi ha regalato
un vasetto di argilla ventilata e mi ha detto di metterne un
cucchiaino in un bicchiere e poi di farla stare tutta la notte a
depositare: per un mese, ogni mattina devo bere l'acqua al netto
dell'argilla che rimane sotto; ma io mi sono sbagliata, l'ho bevuta
dopo dieci minuti di infusione e quindi mo chissà che ho combinato.
La
mia amica sciamana mi ha detto che devo trovare il mio animale di
potere e che secondo lei è un volatile, come il suo, quasi
sicuramente una rondine, ma io già lo so che, se faccio il viaggio
per cercarlo, mi ritroverò di sicuro in qualche anfratto di topo, in
qualche tana arcigna a sentire «Squit squit», senza risolvere
niente.
Draco
Malfoy si è fatto crescere i capelli e adesso va in giro con il
codino, mettendo in grande difficoltà la nostra amicizia, ma nemmeno
questo è servito.
Quindi,
non so: non so come si sopravvive al presente.
L'unica
cosa che so è che qualche mese fa, entrando nella cantina di nonna
Berta, mia madre ha trovato un topo: lo ha descritto come un gigante
ratto malefico, ha urlato, ha corso, si è disperata davanti agli
occhi serafici di mia nonna che la guardava come se avesse la
risposta.
E
ce l'aveva? Sì, ce l'aveva.
(vorrei
dirvi che per scrivere quello che sto per scrivere nessun animale è
stato maltrattato ma non è così, quindi andate avanti solo se ve la
sentite)
Non
potendo sopportare che mia madre fosse così sconvolta da
quell'animale, mia nonna ha messo una trappola per catturarlo e
quando lo ha catturato lo ha preso e lo ha immerso in una vasca che
conteneva varechina per eliminarlo e lasciare pulita la trappola se
dovesse esserci di nuovo necessità. Quando ce l'ha raccontato
l'abbiamo guardata come se fosse la più feroce serial killer mai
vista, ma lei è rimasta placida.
«Ognuno
si deve difendere come crede», ci ha detto.
Insomma,
oltre all'argilling, allo sciamaning, al codining,
sappiate che esiste pure il nonnaberting. Non so cosa
potrebbero dirne gli psicologi in quanto a crudeltà, ma se provate a
metaforizzare, forse una morale c'è, amici.
Chi
di ghosting ferisce, di nonnaberting perisce.
Quindi,
vediamo di comportarci tutti bene.
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