Memorie di una bevitrice di Estahè

Memorie di una bevitrice di Estahè

venerdì 25 ottobre 2019

Thèrminologia emotiva


Se avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!», gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce fuoricampo»

Nel corso degli ultimi anni, il mio vocabolario sentimentale si è ampliato e così, molto spesso, nella mia cucina (che, come è noto, è anche la stanza dove accolgo e cerco di sviscerare molteplici e diversificate questioni amorose di amici e conoscenti), apro uno dei miei quadernoni e, mentre Giaris, Lorelai, Draco Malfoy o Oris mi raccontano cosa gli è successo, io scorro la lista dei nuovi termini imparati, bevo un sorso di Estathè ed elargisco la mia sentenza.
«È un chiaro caso di ghosting». «Ti devi arrendere al fatto che si tratta di benching». «Stiamo per entrare nella cuffing season. Non sei innamorata, è solo situationship». «Sei chiaramente affetta da birdboxing». «Te lo dico: stai facendo breadcrumbing».
Lo so: sembrano supercazzole, soprattutto in bocca a me, che se sento qualcuno che dice «scannerrizzare» invece di «scansionare» svengo, ma non ci posso fare niente se tutta la nuova guida amorosa alla digitalizzazione dei sentimenti è foreing e io sono diventata la Cambridge Analytica delle relationships. L'inglese, dopo essersi preso la terminologia della politica, dell'informatica, del business, del fashion, del web, dei social network e di molte altre cose, si è preso pure il lessico dell'amore 2.0. Ormai, la sensazione è quella di essere costantemente bloccati nel livello «Stronzi in love» di Duolingo e di non avere abbastanza risorse per superarlo, quindi per sopravvivere in questa giungla qualcosa si deve pur fare e quella cosa è aprire un quadernone, prendere appunti e imparare.
Per esempio, se esci con una persona e poi quella sparisce si dice ghosting; se dopo essere sparita ti guarda le stories di Instagram e ti fa qualche sparuto like su Facebook vuol dire che ti sta facendo orbiting (ma se dal ghosting all'orbiting passa molto tempo, allora ci troviamo di fronte allo zombeing). Se invece la persona c'è, rimane, ma non si impegna, ti manipola dicendoti che prima o poi ti farà giocare ma continua a lasciarti in panchina, devi barrare la casella del benching. Se l'altro (o l'altra) si applica il minimo indispensabile per mantenere vivo il tuo interesse e nutrirsene, dandoti attenzioni come briciole di pane, allora sei Gretel (o Hansel) e quello che sta succedendo si chiama breadcrumbing. Se invece entri in una relazione solo per circostanza, stai facendo situationship; se la relazione rimane isolata e segreta allora è stashing; se continui a non vedere quanto l'altra persona sia orrenda allora è birdboxing... E così via.
Folle? Abbastanza, sì. Però il fatto è che il dizionario delle nuove forme di crudeltà emotiva (le chiamano così gli psicologi, non io) andava aggiornato e pure noi. E così io faccio questi corsi di aggiornamento individuali che, da quando è arrivato Ottobre e l'autunno ha iniziato a farsi spazio nelle nostre giornate, sono diventati molto richiesti: la mia cucina è affollata, l'Estathè è sempre di meno e non fanno altro che affastellarsi dati amorosi da scandagliare e capire. Il motivo chiaramente è che stiamo entrando nella cuffing season, che è un periodo di tempo che va da ora a Febbraio, in cui anche se sei normalmente e felicemente single, ti scoppia questa voglia irrefrenabile di entrare in una relazione perché fa freddo, gli strati di vestiti fanno la guerra alla libido, sono ricominciate tutte le serie tv, fuori piove, il divano è invitante e quindi si finisce per ammanettarsi (cuff, in inglese, vuol dire manette) alla prima persona di merda che si incontra e quindi poi si ha bisogno di venire nella mia cucina a guardarmi bere Estathè ed elargire sentenze.

Devo dire che con le relazioni degli altri sono molto brava: è facile parlare con l'amore quando quell'amore non è il tuo. L'amore degli altri si fa vedere, mentre i tuoi sentimenti con te, al massimo, mugugnano, borbottano, frignano, parlando una lingua che non capisci.
Con me, l'amore, quando dobbiamo avere a che fare, squittisce.
«Squit squit», mi dice e allora io cerco di personificarlo, per poterci interagire. Mi immagino che sia Jack Pearson di This is us oppure Abe Weissman di The Marvelous Mrs. Maisel – ho già detto che stanno ricominciando le serie tv, vero? – ma lui niente, resta un topo e mi fa «Squit squit» in faccia, come se il fatto che non ci capiamo fosse tutta colpa mia. Ma io lo so che non è colpa mia, è colpa di come l'amore si è allegorizzato nella mia vita, attaccandosi a una scena di tanto tempo fa che coinvolge mia madre e la sua fobia per i topi.
Avevo sei anni e stavo da mia nonna, mentre mia madre era andata a trovare queste sue amiche vicine di casa. Avevo pianto talmente tanto per raggiungerla che, alla fine, nonna Berta, estenuata, mi ci aveva portato. Mia madre era uscita sul pianerottolo per aspettarmi perché le vicine abitavano al terzo piano di un palazzo e, quando ero sulla rampa per arrivare al secondo piano, si era accorta che tra me e lei c'era un grosso ratto, accovacciato al centro di uno scalino. Non sapendo che fare, mia madre ha iniziato a urlarmi di stare ferma e di scappare, di non muovermi e di correre e altre cose sconclusionate e contraddittorie con una voce talmente acuta che ha finito per disorientare anche il ratto che, senza più capire dove fosse, è caduto nella tromba delle scale, sfiorandomi la faccia.
Quindi io quando penso a cosa mi ha sempre fatto l'amore nella vita questo vedo: un topo che squittisce, si confonde e poi cade nella tromba delle scale, sfiorandomi la faccia. Io ci provo a parlarci, mi impegno sempre, ma quello dice solo «Squit squit» come se significasse tutto. Ho pure cercato su Duolingo – dove insegnano perfino alto valyriano e klingon – ma niente, questa lingua topesca non si può imparare.
E così io finisco sballottata tra gaslighting e submarining, tra textrelationship a microcheating, tra ghosting e orbiting senza colpo ferire.
«E quindi che si fa?», mi chiedono amici e conoscenti quando elargisco la mia sentenza e do un nome a quello che qualcuno gli sta facendo.
«Squit squit», risponde il topo al posto mio e poi si butta nella tromba delle scale.

Le manipolazioni, i giochi psicologici, le sparizioni, le tattiche, l'attesa di rassicurazioni, le bugie, gli status incrociati, i like alle foto profilo, gli screenshot dei messaggi, i vocali, le reazioni alle stories. «Secondo te cosa intendeva quando ha scritto "Embé" e ci ha messo l'accento acuto invece di quello grave come si dovrebbe fare con il "perché" che invece sbaglia sempre?». «Perché nella lista delle visualizzazioni delle mie stories sta al secondo posto dopo mia madre? Vuol dire che va a guardare spesso il mio profilo?». «Io gli ho scritto alle 21.35, lui mi ha risposto alle 02.03: quando ti scrivono di notte che significa?». «Ha postato un libro che gli ho consigliato io, non aggiungo altro».
Stiamo messi così? Sì, stiamo messi così. E non lo so cosa vuol dire, non so come si deve fare, non so come ci possiamo salvare. Ormai, tra cushioning e tuning, tra draking e R-bombing, siamo in un campo tale di irrazionalità che mi viene solo da pensare a mia madre quella volta che un topolino di campagna è entrato in casa nostra e lei, urlando, è scappata in veranda ed è salita con un balzo su un angolo di una panchina di plastica, ribaltando la panchina e se stessa nel tentativo di salvarsi.
«Squit squit», mi ha detto il topo, guardandoci con compassione.
«Embè?», gli ho risposto io, «Ma si può sapere che diavolo vuoi?».

Stabilire i termini di una relazione è sempre un affare difficile, per mille motivi diversi – resistenza alle definizioni, insicurezza sui sentimenti, difficoltà a fidarsi, strani condizionamenti sociali. E poi c'è questo fatto che «stabilire i termini di una relazione» contiene, oltre alla temutissima parola «relazione», anche la più che ambigua parola «termini». Termini, plurale di termine, vuol dire sia definizione di spazio e di senso che limite, confine, punto estremo di qualcosa, fine corsa, conclusione, compimento; ma non solo, vuole anche dire vocabolo, elemento di realtà, locuzione che descrive un oggetto – per non dire che, se abiti a Roma, termini ti fa pensare pure alla stazione ed è subito caos, confusione, garbugli per arrivare dall'uscita della metro A al binario della metro B1.
«E quindi che si fa?», insistono i miei amici e conoscenti, in cucina, mentre io giro le pagine del quadernone per prendere tempo, fingendo che, da qualche parte, mi sono scritta pure una soluzione. Ma la verità è che io non lo so: so le domande, so le parole giuste, metto gli accenti per bene e non sbaglio mai l'apostrofo, però le risposte non le so.
La mia amica Linari dice che ci si deve disintossicare, mi ha regalato un vasetto di argilla ventilata e mi ha detto di metterne un cucchiaino in un bicchiere e poi di farla stare tutta la notte a depositare: per un mese, ogni mattina devo bere l'acqua al netto dell'argilla che rimane sotto; ma io mi sono sbagliata, l'ho bevuta dopo dieci minuti di infusione e quindi mo chissà che ho combinato.
La mia amica sciamana mi ha detto che devo trovare il mio animale di potere e che secondo lei è un volatile, come il suo, quasi sicuramente una rondine, ma io già lo so che, se faccio il viaggio per cercarlo, mi ritroverò di sicuro in qualche anfratto di topo, in qualche tana arcigna a sentire «Squit squit», senza risolvere niente.
Draco Malfoy si è fatto crescere i capelli e adesso va in giro con il codino, mettendo in grande difficoltà la nostra amicizia, ma nemmeno questo è servito.
Quindi, non so: non so come si sopravvive al presente.

L'unica cosa che so è che qualche mese fa, entrando nella cantina di nonna Berta, mia madre ha trovato un topo: lo ha descritto come un gigante ratto malefico, ha urlato, ha corso, si è disperata davanti agli occhi serafici di mia nonna che la guardava come se avesse la risposta.
E ce l'aveva? Sì, ce l'aveva.
(vorrei dirvi che per scrivere quello che sto per scrivere nessun animale è stato maltrattato ma non è così, quindi andate avanti solo se ve la sentite)
Non potendo sopportare che mia madre fosse così sconvolta da quell'animale, mia nonna ha messo una trappola per catturarlo e quando lo ha catturato lo ha preso e lo ha immerso in una vasca che conteneva varechina per eliminarlo e lasciare pulita la trappola se dovesse esserci di nuovo necessità. Quando ce l'ha raccontato l'abbiamo guardata come se fosse la più feroce serial killer mai vista, ma lei è rimasta placida.
«Ognuno si deve difendere come crede», ci ha detto.
Insomma, oltre all'argilling, allo sciamaning, al codining, sappiate che esiste pure il nonnaberting. Non so cosa potrebbero dirne gli psicologi in quanto a crudeltà, ma se provate a metaforizzare, forse una morale c'è, amici.
Chi di ghosting ferisce, di nonnaberting perisce.
Quindi, vediamo di comportarci tutti bene.

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