Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
“Ehi
tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi
una voce fuoricampo”
Ogni
tanto, di fronte a una notizia, a un turbamento emotivo, a una
girandola di nostalgie, mi capita di ritrovarmi nella panda blu di
mia madre, quella con cui portava me e Oris a scuola quando eravamo
piccole. Un sentimento improvvisamente forte mi coglie di sorpresa ed
eccomi con le braccia incrociate sul sedile posteriore della panda, a
guardare fuori dal finestrino, dopo aver litigato con Oris su chi
deve sedersi davanti (prima vinceva sempre lei perché era più alta
e comandava, ora sono passati gli anni, è più bassa, ma vince
comunque). E allora sospiro di fatica, mia madre accende il motore e
parte l'autoradio.
«Io
ed i miei occhi scuri siamo diventati grandi insieme...», canta
lui.
«Con
l'anima smaniosa a chiedere di un posto che non c'è...»,
rispondiamo noi in coro.
Come
tutti, anche io so a memoria le canzoni di Baglioni senza aver mai
comprato un suo disco e lui, Claudione, mi colpisce sempre quando
meno me lo aspetto, con sferzate di autotreni, telline, mezzerie,
straccivendoli, agrifogli, asfalti acquosi, ringhiere, aerei
supersonici e legnetti di cremini da succhiare.
Tra
le cose di cui più mi vergogno al mondo, c'è la faccia sconvolta di
Pezzetta quando, alla fine della mia storia con Chewbecca, mi
ha trovato abbracciata al poggiatesta del sedile passeggero, a tenere
il tempo di una musicassetta.
«Io
ti baciavo mentre tu piangevi... Vai, Iris, ora tocca a te»,
mi istigava Baglioni.
«...
ma adesso che io piango tu chi bacerai?», gli urlavo dietro io,
con la voce spiegata -e stonata.
Qualche
settimana fa, mi ha telefonato Core da Bruxelles: avevamo parlato a
lungo della possibilità di un suo nuovo trasferimento e io sapevo
che, in quella telefonata, avrei avuto la risposta definitiva alle
mie -e alle sue- domande: la decisione finale.
Ho
lasciato squillare il telefono per un po' perché, prima di
rispondere, mi sono versata un bicchiere d'Estathè e mi sono
dedicata a un breve amarcord.
Previously
on Via Nardini, 29
Prima
che Papa Luciani la rapisse e la portasse in Belgio (sì, Giovanni
Paolo I non è morto, si occupa di economia e vive a Bruxelles), Core
abitava sul mio stesso pianerottolo, mangiava alla mia stessa tavola,
insultava i miei vestiti e il modo che avevo di truccarmi e non
usciva mai con me: erano questi i capisaldi della nostra amicizia.
La
mattina, mentre lei era al lavoro, io andavo a passeggio con India e
Sophie, la sua labrador e la sua levriera italiana, le mie amate
nipotine nere come la notte, e la sera lei insisteva a pagarmi: «Sei
la loro dogsitter», mi diceva: «Io non credo nell'amicizia».
«E
lei, lei mi guardava con sospetto, poi mi sorrideva...»
«No,
Claudio, questo non è uno di quei momenti. Non interrompere!»
Dicevo
che Papa Luciani, a un certo punto del suo pontificato, si è
caricato Core, India e Sophie sopra a una furgone e, dopo 34 ore
nette di viaggio, le ha stanziate a Bruxelles.
«Avrai
avrai avrai il tuo tempo per andar lontano, camminerai dimenticando,
ti fermerai sognando!», urlavamo io e Oris dalla panda blu di
mia madre, durante quell'addio (purtroppo quell'automobile fa sempre
gli stessi 5 chilometri di giro per portarci a scuola, quindi non si
è potuta lanciare all'inseguimento del furgone del Papa verso il
Belgio).
Fine
dell'amarcord
Quando
mi è arrivata la telefonata di Core, qualche settimana fa, eravamo a
due anni di distanza da quella partenza.
«Senti
freddo anche tu, senti freddo anche tu: perché stai a
Bruxelles...», ha detto lui.
«Oh,
Baglioni, non ti prendere tutte 'ste libertà, però. Le
rivisitazioni non le accetto. E poi cerca di attenerti alla mia
ritmica emotiva, non entrare fuori tempo...»
«Aò,
nun me di' che sto fòri tempo che te lancio dietro uno de 'sti
zigomi. Guarda che fanno male, eh...»
«Iris:
è deciso. Ci trasferiamo a Washington...», mi ha detto Core e io ho
pensato: Washington, fuso orario, Oceano Atlantico, «Ma dove cazzo
le porti 'ste cagnoline che stavano tanto bene a Roma e mai avrebbero
immaginato nella vita di diventare delle migranti?», nostalgia
preventiva, «E adesso come faremo a sentirci?», paura, baratro, «Il
tuo cervello, si sa, riesce a contenere solo due lingue: hai dovuto
rinunciare all'inglese per il francese e mo' devi rinunciare al
francese per l'inglese», mania del controllo, «Come fai a
trasferirti in un paese in cui non vendono Estathè?», panda blu,
Baglioni che urla: «Chi
viene a prenderti? Chi ti apre lo sportello? Chi segue ogni tuo
passo? Chi ti telefona e ti domanda 'Tu come stai?'».
E poi le ho dato la risposta vera, quella che tiri fuori la
musicassetta dall'autoradio senza premere stop, incasini il nastro,
interrompi un arabesco vocale di Baglioni, spingi il sedile del
passeggero in avanti, schiacci Oris contro il parabrezza, apri lo
sportello della macchina senza guardare, scendi e glielo dici: «Che
bello, Core! Sono così felice per te!».
Quando
ho riattaccato, però, sono rientrata in macchina e mi è venuto il
magone.
«Un
treno per l'America, senza fermate...»
ha provato a dire Baglioni, ma non io non gli ho dato corda. «E
quel disordine che tu hai lasciato nei miei fogli andando via
così...»,
ha provato ancora. «Cosa
mi è preso adesso? Forse mi scriverai, ma sì è lo stesso...».
Baglioni mi cantava tutte le sue frasi migliori sull'abbandono, ma io
non ce la facevo a seguirlo.
«Claudio...»
«Eh,
dimmi»
«Ma
a te nella vita ti hanno solo lasciato?»
«Senti,
se non la smetti, trasloco nella Uno bianca di tuo nonno...»
Dopo
quella telefonata, sono passate alcune settimane, sono partita e
tornata un po' di volte per andare appresso al mio libro e, in una di
queste partenze, mi sono ritrovata sul pianerottolo del quarto piano
di Via Nardini 29.
Nessuna
notizia, nessun sentimento forte mi ci avevano mai portato prima.
Mia
madre e mia sorella avevano deciso di accompagnarmi, in quel viaggio
in treno verso Torino, e, mentre mia sorella cercava un modo per
mettersi sul sedile davanti («Oris, ma davanti a che?», le chiedeva
mia madre) e io già mi prefiguravo tutte le discussioni surreali che
avremmo avuto in trasferta (Oris che dice: «Iris, te lo giuro,
quando ci hai lasciate da sole, mamma si è nascosta dietro una
colonna...»; mia madre che le risponde: «È
che non sai leggere le mappe sull'iPhone e mi stavi cercando con le
indicazioni per il percorso in macchina...»), io mi sono ritrovata
sul pianerottolo e Core mi ha detto: «È
un mese che non scrivi sul tuo blog...».
«Sì,
è perché Baglioni mi tiene sotto sequestro dentro la panda blu»
«Mmm...
E adesso perché sei qui?»
«Credo
sia per salutare te e papa Luciani, tifare per la vostra partenza...»
E
allora siamo scese in strada, dove c'era la panda parcheggiata in
doppia fila: Oris ha fatto salire Core con me sul sedile dietro,
abbiamo sospirato di fatica e di gioia, mia madre ha acceso il motore
ed è partita l'autoradio.
«Core,
io e Oris per te siamo come le canzoni di Baglioni: ci sai a memoria
pure se non ti sei comprata il disco. Non basta andare a Washington
per liberarti di noi: non ti libererai mai di noi...»
P.S.
Dopo questa affermazione, confido che Baglioni emigri nella Uno
bianca di nonno Peppino. È
solo per questo che ho scritto il post, non per amicizia. Tanto Core
non ci crede nell'amicizia.
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