Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
“Ehi
tu, Dio!”, gli avrei detto “Non darmi tutte queste tette, dammi
una voce fuoricampo”
Siccome il nonno è uscito dall'ospedale, è terminato il mio esilio pontino (anche se non è ancora finito Maggio) e io e mia madre abbiamo smesso di correre avanti e indietro in macchina, di fare organizzazioni folli delle giornate, di sistemare fatture per case di riposo (in ordine cronologico) e innumerevoli bottiglie e brick di Estathè (in base alla grandezza).
E poi abbiamo smesso di
porci domande stupide, del tipo: “Ma perché se deve succedere
qualcosa, succede sempre a Maggio che è periodo di 730?” oppure
“Ma 'Ti amo' di Umberto Tozzi è uscita negli anni ottanta o negli
anni novanta?”.
Immancabilmente,
qualcuno starà pensando che con questa storia di Maggio è il
mese peggiore dell'anno la mia famiglia si sia autocausata le sue
sfortune: non possiamo dire niente a nostra discolpa perché non
siamo molto bravi nella spiegare (e nello spiegarci) le
concatenazioni degli eventi e il funzionamento delle cose.
Basti pensare che io ho
passato il mio tempo pontino a fissare mia madre che fissava mio
nonno che fissava mia nonna che fissava una flebo.
E' stato nel caos di
queste giornate che, a un certo punto, mi sono ritrovata nel temibile
stanzino: la camera della casa dei miei genitori adibita allo
stiraggio dei vestiti.
Tutte le persone che
conosco qui a Roma non stirano i vestiti e, qualora avessero uno
stanzino in casa, lo avrebbero visto affittato dai proprietari
a una cifra esorbitante (anche se quelli sono luoghi in cui la vita è
costretta a svilupparsi in verticale, con soppalchi Ikea, scrivanie
incassate e pensieri non troppo voluminosi).
Quando mi sono
ritrovata lì dentro, il mio senso del dovere mi ha spinto ad
accendere il ferro e a mettermi all'opera (nutrendo una mancanza
incredibile per il mio ferro verticale, quello che stira i vestiti
direttamente sulla gruccia e che è verticale anche se non c'entra
niente con i soppalchi Ikea, le scrivanie incassate e i pensieri non
troppo voluminosi -è solo un regalo ricevuto proprio dai nonni,
indignati nel vedere me, Oris e Pezzetta perennemente sgualciti).
Proprio mentre stavo
per picchiare con decisione la prima ferrata, ho sentito una voce.
“Canta
Gloria,
ti prego. Cantala!”
“Umberto,
sappiamo tutti e due cosa succede se mi metto a cantare...”
“Cosa?”
“Lo
sai.”
“Ti
prego, fammi
abbracciare una donna che stira cantando...”
“E'
questa la pena che sconti per l'evasione fiscale? Ti hanno chiuso
nello stanzino in cui stira una commercialista?”
“Viviamo
sempre di oggi e di ieri, inchiodati dalla realtà...”
E
così ho cantato, Umberto mi ha abbracciato e abbiamo parlato di “Ti
amo” che è uscita (addirittura) nel '77 (altro che anni ottanta e
novanta!) e che, secondo Umberto, non è troppo lontana da Catullo
con il suo SeVieneTestaVuolDireCheBastaLasciamociTi...Amo.
E
devo dire che mi sono trovata d'accordo, forse perché la situazione
era stancante e surreale, forse perché non sono molto brava a
stirare o forse, più semplicemente, perché ero in uno stanzino
pieno di vestiti spiegazzati, con un uomo dai capelli crespi e gli
occhiali con le lenti azzurre e una botta di overdose da vapore e
estathè.
“Iris,
non bere tutto questo Estathè.”
“Devo,
mamma.”
“Che
vuol dire devo?”
“Che
sono come i gatti, razionalizzo le mie risorse in base al tempo di
permanenza.”
“Ma
tu non lo sai ancora quanto ti fermerai...”
“Sì,
ma bevo tanto sperando di fermarmi poco: è un buon auspicio per il
nonno!”
“Tutte
le scuse sono buone. Vergognati.”
“Lo
sai che c'è Umberto Tozzi nello stanzino?”
“Non
cambiare discorso.”
“Mi
ha detto Sciogli
questa neve che soffoca il mio petto.
Ti dispiace se lo portiamo con noi?”
Ritrovandosi
nelle mani della commercialista giusta, Umberto ha scontato la sua pena
viaggiando in macchina con donne che guidano cantando; mia madre ha
saputo la sconcertante notizia che Gloria
è stata cantata in inglese da Laura Branigan e inserita nel film
Flashdance (eccone le prove) e io, dopo un acuto della nonna, ho capito il motivo per cui lei
fissava la flebo e la flebo fissava lei.
Sottovalutando
la forza di gravità (a causa del suo primato nella autogenerazione
perpetua di ansia), la nonna pensava che la flebo avrebbe
smesso di gocciare in maniera improvvisa, da un momento all'altro,
senza dare spiegazioni, dicendo “Vado a prendere le sigarette”
senza più tornare, e quindi la flebo, di conseguenza, continuava a
fissare mia nonna, perché anche la flebo come i gatti crede negli
epigrammi di Catullo e nella razionalizzazione delle risorse (motivo
per cui somministra sostanze liquide romanticamente in vena e non con
un'esuberante catenella per doccia, come nel celebre spettacolo di
Alex Owens, in Flashdance).
Alla fine è andata
che, quando la flebo è terminata, un allarme è suonato in stanza
per richiamare l'attenzione degli infermieri e la nonna, battuta sul
tempo, ha mosso un acuto con la sua frase preferita.
“Peppì,
sguilla!”, ha urlato, allo stesso microfono di Umberto Tozzi,
spronandolo a fare di quelle parole il ritornello del suo prossimo
singolo di respiro internazionale.
Intanto, il nonno aveva
una bottiglia di Estathè sul comodino.
E quindi, alla fine, è
andato tutto bene.
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