Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!»,
gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce
fuoricampo»
Non
conosco una persona che non si lamenti dello scollamento che esiste
tra quello che sente di essere e quello che gli altri pensano che
sia oppure tra quello che pensa che siano gli altri e quello che gli
altri fingono di essere. Fa parte della natura umana sia non
comprendersi pensando di aver capito tutto sia non lasciarsi
comprendere pensando di essere stati fraintesi e, in questo, siamo
tutti talmente umani che non facciamo altro che non capirci, finendo
per starci tutti sul cazzo.
Io,
ovviamente, mi sono conferita il titolo di campionessa olimpica di
questo scollamento fin dalla culla e non ho fatto altro che
crogiolarmi in questa condizione. Dentro la mia testa, ci provo
sempre ad elevarmi, a tentare di superare quest'impasse facendo uso
di controragionamenti, autopsicologia inversa e neutralità di
giudizio, ma nei fatti ogni volta che qualcuno non mi saluta penso di
stargli antipatica, anche se so che, ogni volta che io non saluto
qualcuno, quel qualcuno di solito mi sta simpatico, ho solo paura che
non si ricordi chi sono.
Credo
sia colpa delle insicurezze, della timidezza, della goffaggine:
queste cose ti scavano un fossato intorno, che rende più difficile
ogni rapporto con gli altri, quindi gli altri – che intanto devono
gestire pure il loro di fossato – invece di girarti intorno fino a
trovare il ponte levatoio o immergersi nei chilolitri di Estathè che
riempiono i fossi, lasciano stare, tanto sono alte le possibilità
che tu sia solo l'ennesima stronza antipatica che tiene lontani tutti
quanti.
«Ma
ti leggi mentre scrivi? Ma che è 'sta mania di intellettualizzare
tutto?», mi ha detto la voce di Giaris, che è entrata in casa dalla
finestra, a proiettile, insieme a un tappo di bottiglia arrivato
probabilmente da qualche tovaglia scrollata o da qualche proposito
omicida nei confronti della mia resistenza cardiaca.
«Iris,
tu lo sai che io ti adoro quando metti me e Oris come bambole di
pezza sul tuo letto e ci racconti i paradossi dei viaggi nel tempo e
sai pure che io sono grande fan e attuatrice dell'odio per la gente,
però tu la devi fare finita con questa storia degli scollamenti, del
ponte levatoio e dei – come hai detto? – chilolitri. Chilolitri,
Iris, davvero?».
«I
chilolitri sono un'unità di misura, caro tappo di sughero
con la voce di Giaris che, dall'odore, mi sa che chiudevi una
bottiglia di vino rosso...».
«Senti,
Chilolitri, non ti deconcentrare. Seguimi. Visto che con la storia
dell'anti-galateo abbiamo fallito miseramente, proviamo con questo:
da oggi, ti devi inventare un tiradentro.
Ti serve, come serve a tutti...».
«Un
tiradentro?».
«Sì.
Hai
presente quelli che stanno fuori dai locali e che ti dicono "Daje,
su, entra, che qua se fa la migliore amatriciana de Roma"? Ecco
quelli. Perdonami, ma se la gente di te vede solo quest'insegna che
hai messo fuori, cosa deve pensare? Non si capisce se sei un
ristorante, se sei una cartoleria, se sei un centro di recupero per
ragazzi speciali o un appartamento privato chiuso al pubblico perché
se sente tanto 'sto cazzo».
«Ho
capito, ma quindi che devo fare?».
«Devi
interloquire, Iris. Devi imparare a parlare con le persone».
«Ma
io ci parlo con le persone!».
«Ma
con chi parli? Sempre con quei quattro stronzi della cazzo di corte
dei miracoli degli amici tuoi!».
Chiaramente,
non esiste un manuale per la creazione del tuo tiradentro, non
esistono tavole di montaggio, pezzi di costruzione o maieutici
cavatappi per l'inconscio, quindi la richiesta della Giaris
turacciolo mi ha messa molto in difficoltà.
Le
mie conversazioni, fuori dalla comfort zone delle persone che conosco
sul serio, mi sembrano sempre faticose. Cosa dovrei rispondere
all'insegnante di yoga che, mentre sono nella posizione del cammello,
mi dice: «Devi aprire di più il cuore, Iris»? O al commesso del
Carrefour che mi dice: «Mannaggia la miseria con 'sto Estathè,
guarda che il Sant'Anna è identico, eh»? Sto zitta, che è meglio,
visto che con sconosciuti e conoscenti riesco a dare il peggio di me
nell'ansia di nascondere il mio fossato e saltare a pie' pari il
loro.
Quando
un mio amico mi ha chiesto se mi poteva lasciare sua figlia per
qualche ora, io ho subito pensato: «E mo che le dico?», quindi:
«Certo», gli ho risposto, «però io non le posso dare retta che
devo lavorare».
«Perfetto,
grazie e non ti preoccupare, tanto Oris è autonoma». Già, perché
poi la figlia del mio amico si chiama Oris, ha undici anni, è
bionda, bella e molto intelligente, di quella intelligenza furba che
unduetré sei seduta per terra con lei che ti fa le trecce. E sì,
se ci state pensando, la risposta è sì: ricorda proprio qualcuno di
mia (e ormai pure di vostra) conoscenza e infatti la prima domanda
che mi ha posto è stata: «Posso vedere l'armadio di Oris che lei ha
un sacco di vestiti?». Oris, l'altra Oris, la somma Oris, quella che
le trecce te le fa solo con lo sguardo.
Per
il resto siamo state in silenzio, io ho lavorato e lei ha guardato la
TV, fino a che non è tornata dal lavoro Big Oris che, appena è
entrata, le ha regalato un vestito, le ha fatto una treccia e si è
fatta raccontare tutti i suoi segreti – chiaramente, ogni bambina
bionda è fornita di un tiradentro che manco i bancarellari di via
Sannio.
A
un certo punto, mentre non so come ci siamo ritrovate al tavolo a
giocare a poker, Oris piccola mi ha guardato e ha colpito forte:
«Papà dice che tu scrivi. Che cosa scrivi? A me piacciono i gialli.
Cioè, mi piacciono dal momento in cui muore qualcuno, prima di
quello mi annoiano».
Per
rispondere, ho bofonchiato cose che lei ha finto di capire e poi sono
stata salvata da un full di Oris grande che, ovviamente, non ha fatto
vincere una mano a nessuno.
«Non
capisco quale parte di "Devi
imparare a parlare con le persone" non era chiara, Iris», ha
tuonato la voce di Giaris mentre mi scioglievo la treccia.
«Ma
una sfida più facile di due Oris sedute intorno a un tavolo non mi
poteva capitare?».
«Vogliamo
invece parlare di come ti sei fatta sgridare dal personal trainer
nella sala isotonica
– per dirla come la diresti tu?».
«No,
non parliamone».
«Ti
vergogni, eh».
Non
è che mi vergogno è che io dovevo fare un esercizio che lui mi
aveva scritto sulla scheda, ma intorno al macchinario c'erano due
tipi che facevano cose ansimando come ansimano gli uomini quando
fanno sport – che sembra che i muscoli li devono partorire, non
allenare.
«Iris,
ma che stai a fa' ferma là davanti?», mi ha detto lui.
«Riccardo,
non è che posso sostituire questo esercizio con un altro?».
«Ma
perché?».
«Non
voglio mettermi là in mezzo e imporre la mia presenza, non li voglio
disturbare».
Non
saprei descrivere lo sguardo che mi ha riservato Riccardo, posso solo
riportare le sue parole: «Tu forse stai scherzando, Iris. Adesso
gonfi il petto, vai là e gli dici "Levateve".
In sala pesi, vige la legge del più prepotente, la devi imporre la
tua presenza sennò questi te se magnano. Forza, vai là, io ti
guardo: spalle dritte e arroganza».
«E
invece tu che hai fatto? Diciamolo quello che hai fatto», mi ha
incalzato Giaris: «Sei andata lì e hai sussurrato "Scusate,
devo usare questo macchinario", che capirai se ti potevano
sentire quei due compressori a pistone di nessuna utilità per il
prossimo. Poi ti sei seduta vittoriosa sul macchinario e Riccardo,
porello, ti ha sorriso come se avessi davvero interagito e vinto la
tua battaglia...».
Io
non ho capito se ho un problema con i giudizi degli altri, con i
pregiudizi, i cambi di idee, gli indulti, le riduzioni di pena o le
preterintenzioni, so solo che quando devo avere a che fare con
qualcuno che non conosco mi sento sotto osservazione, come se fossi
in tribunale, e mi immagino che tra me e l'altra persona ci sia Borza,
una tipa molto minacciosa che controlla le borse fuori da un locale
in cui vado spesso a vedere i concerti. È sempre incazzata e ti
controlla dappertutto: se mi trovasse in possesso di un brick di
Estathè non me lo sequestrerebbe, me lo farebbe ingoiare intero.
«Aprite
le borze. I maschi de là, le femmine de qua. Ma che stai a fa?
Anvedi questo. Qua noi stiamo a lavora', mica ce stamo a diverti'...
A te non te farei proprio entra', guardampo'».
L'ultima
volta che ci sono andata, sull'onda delle mie disquisizioni con
Giaris, mi sono immolata al controllo con il cuore aperto e un gran
sorriso sulla faccia. «Ciao tesoro, c'hai acqua, smalti, deodoranti?», mi ha
chiesto lei mentre mi sprimacciava la borsa da sotto. «No, niente»,
ho risposto io, con un piede già sopra al ponte levatoio. Poi, però,
lei ha infilato le mani tra le mie cose, si è messa a ridere e scuotendo la
testa ha alzato un po' la voce e ha commentato: «Capirai, questa
c'ha 'n libro. Vai vai, passa...».
Mentre
cadevo nel fossato, mi sarei voluta giustificare, dirle che aveva
frainteso, che non era come sembrava, che quello che era successo era che non avevo potuto svuotare
la borsa prima di andare al concerto, che mica ero una scema
dissociata che si porta un libro quando va a sentire la musica dal
vivo, ma lo scollamento ormai era avvenuto, il terreno comune era
perso e io sono stata costretta a nuotare nell'incomprensione.
È
stato in quel momento che, da un bicchiere di un superalcolico,
Giaris mi ha detto: «Idea pazzissima: e se ingaggiamo Borza come tua
personale tiradentro? Sai quanto ci divertiamo?».
«Ma
infatti, la prossima volta che mi perquisisce, provo a dirglielo.
Potrei farle il discorso sulle insicurezze, la timidezza, la
goffaggine... magari funziona, no?».
«Certo,
oppure le puoi dire quella cosa del paradosso del nonno nei viaggi
nel tempo, così pensa che le stai insultando il suo di nonno e ti
mena. Allora sì che ci divertiamo».
«Ecco,
almeno divertiamoci, va'», le ho risposto, prima di spegnere l'insegna
e mescolarmi agli altri, in quella complessa rete di natura umana piena di interlocutori impossibili.
Poi, siccome uno
che conoscevo non mi ha salutato, con grande pacificazione nei confronti di me stessa, mi sono
girata verso Oris e le ho detto: «Mi sa che a quello gli sto
antipatica».
«Ma che ti frega! Sapessi a quanti sto antipatica, io».
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