Se
avessi potuto scegliere, io avrei voluto una voce fuoricampo
«Ehi tu, Dio!»,
gli avrei detto, «Non darmi tutte queste tette, dammi una voce
fuoricampo»
C'è
sempre un momento, nei miei incontri con la mia amica Reiki, in cui
la vedo cambiare faccia: butta gli angoli della bocca all'ingiù,
socchiude gli occhi e scuote un po' la testa. Subito Tobia si alza in
piedi e fa urdhva
mukha svanasana,
la posizione yoga del «cane a testa in su» (che, tra l'altro, gli
riesce benissimo essendo lui un cane). Si guardano e io lo so cosa
stanno facendo.
In
quel momento, come reazione a qualcosa che ho detto, Reiki e Tobia
stanno frugando tra i miei chakra per cercare di capire qual è il
centro energetico che non mi funziona e potermi aiutare a sturare la
mia vita da qualche strana immondizia spirituale. Praticamente, una
specie di Mangia,
prega, ama,
solo che, siccome io non sono Julia Roberts, AMA non è una
coniugazione del verbo amare ma l'acronimo della municipalizzata che
opera, per conto di Roma capitale, con i rifiuti solidi urbani del
mio inconscio. Ottenendo quegli incredibili risultati che conosciamo
bene.
E
infatti, io glielo vorrei dire a Reiki che è tutta colpa di Virginia
Raggi se le strade della mia emotività sono piene di cassonetti allo
stremo, ma ci non riesco mai, perché mentre rabbonisco Tobia
fornendogli del cibo sottobanco, lei ha già elaborato un principio
vitale da condividere, pur sapendo che bene che le va otterrà da me
la stessa propensione al cambiamento che abbiamo ottenuto noi da mia
nonna quando le abbiamo detto che il Comune aveva approvato la
raccolta differenziata obbligatoria, con ritiro porta a porta: «Che
ci frega, noi portiamo tutto in campagna e lo bruciamo», ha detto
lei – chiaramente si tratta di una variazione ambientalista del già
altrimenti noto nonnaberting.
Ma
se mia nonna è arrivata, come è arrivata, ad avere un cestino per
l'umido, penso di poter riuscire anche io a pensare agli ultimi mesi
seguendo i precetti di Reiki e reagendo con equilibrio a ognuno degli
attentati che la vita mi ha giocato.
1.
Okoruna
– Non essere arrabbiato
A
dicembre, sono stata 4 giorni a New York per l'uscita di un'antologia
che conteneva un mio testo teatrale, quindi, di grazia: di cosa
dovrei essere arrabbiata? Di niente, infatti. Certo, il viaggio di
andata è durato 16 ore (tra taxi, check-in, scali, controlli, ecc.)
e lì non ho trovato nemmeno un goccio di Estathè, ma New York a
Natale è bellissima, no? Figurarsi, certo. E poi ha nevicato, per
rendere tutto perfetto. Rockefeller Center, il vapore dai tombini, le
vetrine, le luci, le strade imbiancate, i meno 14 gradi, gli occhi
della mia amica Core che lacrimavano senza fermarsi e poi quel mio
meraviglioso dolore al piede.
«Ma
ti sei coperta bene?».
«Certo,
a fronte delle newyorkesi con le caviglie nude, io avevo calze e
calzini termici, eppure...».
«Eppure?».
«Eh,
mi sono iniziate queste fitte tremende che poi si sono scoperte
essere una fascite plantare – lo so, sono sempre molto sexy – e
quindi me ne sono andata in giro per New York con i movimenti
rallentati da strati di vestiti e da una vistosa e faticosissima
zoppia».
«E
ti sei arrabbiata?».
«Ma
no, figurati. Tremavo dall'emozione, mentre quell'altra
lacrimava...».
Poi
il viaggio di ritorno è durato altre 16 ore (tra transfer, check-in,
scali, queste lunghissime tratte degli aeroporti con me claudicante,
cibarie strane e lunghe telefonate con le amiche per non
addormentarmi). Quando sono scesa a Roma, ormai, camminavo in maniera
talmente buffa che mia madre e mia sorella sono scoppiate a ridere
quando mi hanno visto. Non dormivo da quattro giorni ed ero stremata,
ma non mi sono arrabbiata, ovviamente. No, no. La famiglia non è
assolutamente fatta per sfogar...
«MA
COSA VI RIDETE, EH? VI PRENDETE GIOCO DI UNA STORPIA? NEW YORK HA
CERCATO DI UCCIDERMI!».
«Scusa,
Iris, però solo tu riesci a tenere le gambe aperte mentre ne
trascini una...».
«VI
ODIOOO! È TUTTA COLPA VOSTRA! STATE ATTENTANDO ALLA MIA SANITÀ
MENTALE! E POI PERCHÉ NESSUNO MI PRENDE LA VALIGIA?».
«Scusa,
ma Oris ti stava facendo una storia per Instagram».
«...».
5.
Hito
ni shinsetsu ni
– Sii rispettoso verso gli altri
Sono
tornata da New York il giorno prima di Natale ed ero piena di
arretrati (lavoro, sonno, stanchezza, normale deambulazione), quindi
il mio unico obiettivo era buttarmi in un letto. L'ho fatto, ma poco
dopo hanno suonato. Non ci potevo credere. Mi sono trascinata al
citofono con un profondo rispetto verso questi altri che volevano
qualcosa da me (ma che cazzo) e con un profondo rispetto per Oris che
si era assopita e quindi non aveva mosso un passo per evitarmi questo
ingombro.
Quando,
con la dolcezza del jet-leg, ho urlato dentro la cornetta: «CHI È?»,
ho sentito un flebile: «Sono Lorelai, Iris» e mi sono
immediatamente preoccupata perché Lorelai non è flebile nemmeno
quando è flebile, non è calma nemmeno quando è calma, diciamo che
con i resti del primo principio del reiki ci ha fatto un'offerta
votiva al Cavaliere nero e la morale è che non
glie devi caca' er cazzo.
Comunque,
quando le ho aperto la porta, mi sono trovata davanti la faccia di
Lorelai piena di sangue.
«Ma
che ti è successo?».
«Non
lo so bene, stavo camminando e ho sentito qualcosa che mi è arrivato
in testa, poi mi sono guardata intorno e non c'era niente, allora ho
fatto finta di nulla e ho continuato a camminare fino a che un
signore non mi ha chiesto se andava tutto bene e mi sono resa conto
di stare in queste condizioni...».
«Siediti,
dai, chiamo Oris e ti medichiamo».
Dopo
aver ripulito la faccia e la testa di Lorelai ci siamo rese conto che
la ferita era molto piccola e, mentre lei urlava al telefono contro
sua madre – sempre perché la famiglia non è assolutamente fatta
per sforgar... «MA QUALE ANTITETANICA? MA COSA STAI BLATERANDO? E
NON MI DIRE DI STARE CALMA...» –, per calmarla, le abbiamo detto
che non doveva preoccuparsi vista l'entità della ferita e allora lei
ha avuto l'illuminazione.
«Ecco
cosa è successo, ho capito: credo sia stato un bambino che stava
giocando con una pistola a piombini, deve avermi sparato in
testa...».
Io
e Oris ci abbiamo provato a trattenerci, ad essere rispettose
dell'altra e indignate per l'accaduto, ma non ci siamo riuscite:
siamo scoppiate a ridere dell'assurdità della situazione. E così ci
sono state urla, insulti, risate, lacrime, parolacce, sangue, madri,
medici e molto disinfettante.
«Chissà
cosa stanno pensando i bambini dei vicini...».
«CHI
SE NE FREGA DEI BAMBINI! È STATO UNO DI QUESTI STRONZI CHE HA
CERCATO DI UCCIDERMI, IRIS!».
4.
Goo
hage me
– Lavora con impegno
Gli
ultimi mesi sono stati lavorativamente molto intensi – diciamo pure
che da luglio non ho avuto nemmeno un weekend, solo un paio di giorni
di pausa a Natale e quest'ultima domenica (che comunque ho dovuto
impegnare per andare a cambiare un caricatore del telefono che quelli
del negozio (ma che cazzo) mi hanno venduto sbagliato). Insomma, non
ho avuto requie. Tra tutte le cose, però, quella più impegnativa è
stato un progetto che ho scritto (e sto scrivendo) con la mia amica
Linari, madre di due bambine.
È
da un po' di tempo che le mie amiche hanno iniziato a diventare madri
e, siccome molte di loro, per me, sono famiglia, è da un po' di
tempo che io ho iniziato a diventare zia. Con questi bambini ho fatto
aperitivi, viaggi, discorsi, pigiama party fin da quando erano nelle
pance delle mie amiche. Quindi sono abituati a vedermi, a giocare con
me, a sentirmi sproloquiare su accenti e logaritmi parlando molto veloce,
a guardarmi bere Estathè da cannucce bianche alle quali loro non
possono accedere – e che, comunque, anche se potessero, «a
ciascuno il suo brick, amori di zia».
A
metà gennaio, stavo davvero lavorando con impegno quando Bianca, la
figlia maggiore di Linari, quella che ha la frangetta impertinente e
due pesci che si chiamano Mucca e Pecora, mi ha guardato negli occhi
e con tutta la dolcezza che poteva mi ha detto: «Ma quando te ne
vai?», una frase che mi ha frantumato il cuore e lo ha reso mangime
per i suoi due animaletti gender fluid.
Siccome
non le ho risposto, lei ha messo elegantemente le mani a
cucchiara e
me lo ha urlato sulle note di una melodia: «MA QUANDO TE NE VAI?».
Il padre, allora, le ha risposto dicendole che non me ne sarei andata
mai più, che avrei cenato con loro e dormito nel letto a castello
con lei e la sua faccia mi ha definitivamente ferita a morte.
Linari
ha cercato di tirarmi su, adducendo motivazioni in difesa della figlia, a
cui doveva sembrare che fossi io e non il lavoro ad averle rubato la
mamma, ma io l'ho visualizzata con una pistola in mano, alla
finestra, pronta a spararmi non appena avrei cercato di lasciare il
palazzo.
3.
Kansha
shite –
Sii grato
Le
mie amiche, sia quelle che sono già diventate madri che quelle che
non lo sono ancora diventate, cercano sempre di presentarmi degli
uomini. Certe volte mi avvertono, certe volte non mi avvertono, certe
volte me ne accorgo da sola perché per settimane preparano il
terreno a questi incontri, parlando di quanto sia adorabile questo
gioiello di uomo che conoscono.
«Se
questo sta da solo un motivo ci sarà. Avrà qualche problema».
«Beh,
ma allora questo vale anche per te...».
«Certo
che vale anche per me, ma che non mi vedi?».
«Comunque,
non ti preoccupare, a lui non lo dico che vi sto presentando».
«Ma
allora non dirlo nemmeno a me!».
«Ma
tu te ne sei accorta!».
«Quindi
sono più intelligente di lui? Ma li mette gli spazi dopo le
virgole?».
«Aspetta,
controllo...».
«Puoi
controllare anche quante volte e come scrive Ahahah!
in
una conversazione?».
«Oddio,
guarda non te lo presento più. Sei impossibile».
«Sappi
che ti sono molto grata».
«Perché
te lo presento o perché non te lo presento?».
«Non
lo so, Reiki non ha specificato per cosa devo essere grata. Sono
grata, non ti basta?».
2.
Shimpai
suna
– Non ti preoccupare
Qualche
giorno fa, ero diretta verso una presentazione ed ero (come sempre)
in anticipo, quindi mi stavo godendo una passeggiata tra le strade
del centro, con un vestitino di velluto un po' da Jo March di Piccole
donne
quando si trasferisce a New York e non ci sono meno 14 gradi (beata
lei). Ero davanti a Chiesa Nuova quando sono scivolata. Nel piazzale
vicino alla stazione dei taxi, il mio piede destro è andato per i
cavoli suoi e io sono quasi caduta.
Mi
sono fermata, ho respirato e ho pregato un santo che conosco: «Fa'
che non sia una merda, San Tobia. Pensaci tu, cane yogico e molto
educato». Non potevo andare a parlare in una libreria, con una
scamiciata di velluto e una scarpa piena di cacca. Grazie al cielo,
per non farmi preoccupare, Tobia e Julia Roberts hanno esaudito il
mio desiderio.
«Ciao
Reiki, scusa se ti disturbo ma devo chiederti una cosa».
«Dimmi».
«Sono
appena scivolata su un preservativo usato e vorrei capire, secondo
te, che segnali sto inviando all'universo e che segnali lui sta
inviando a me. Io ci provo a impegnarmi, a stare nel presente, ad
ascoltare il mio corpo, a rimanere calma e a formulare i miei
pensieri sempre in positivo, ma se poi scivolo su un preservativo
usato come faccio a non pensare che sia tutta colpa di Virginia
Raggi?».
«Ahahah»
«Reiki,
non ridere – o almeno fallo con la punteggiatura giusta – ma
soprattutto: dammi una soluzione! Come faccio a non sentirmi sotto
perpetuo attacco da parte di questo universo?».
«Facciamo
così: pensa che, in un mondo in cui si può scivolare su un
preservativo usato, può succedere di tutto».
«E
questo dovrebbe farmi stare meglio? Sai quante altre cose assurde
sono già successe? Senti, passami Tobia, per piacere».
«Dammi
retta, Iris, non ti preoccupare. Andrà tutto bene. Poi, se va
male...»
«Poi se va male, portiamo tutto in campagna e lo bruciamo, Reiki. Anche perché, te lo dico, con
tutto il rispetto per Greta Thunberg, io non so proprio come
differenziarlo questo disastro».